I giapponesi possono salvare l'Ilva di Taranto
mercoledì 11 febbraio 2015 da Ing. Biagio De Marzo
Cari tutti,
pur nel caos cittadino, continuo ad inseguire la mia storica "pazza idea" di contribuire a salvare il salvabile di Ilva Taranto che non ammazzi i tarantini e i lavoratori, ben diversa da quella di tanti o pochi miei compagni di strada all'epoca di Altamarea.
Se non l'avete letto sul giornale, vi riporto di seguito l'articolo che è stato pubblicato proprio oggi in prima pagina sulla Gazzetta di Taranto/Gazzetta del Mezzogiorno con il titolo "L'Ilva e le scelte dure e dolorose da compiere". Scrivo di cose concrete e realistiche, non sogni impossibili, nè generose utopie.
Sarebbe utile confrontarsi, senza pregiudizi, sulla strada che porterebbe a una nippo-consulenza tecnico-manageriale a tutto campo sullo sviluppo di un nuovo assetto dell'Ilva di Taranto, in "versione newco". Sarebbe, secondo me, la strada con maggiori probabilità di successo rapido e duraturo. Oltretutto, NSSM si è disinteressata del mercato europeo dell'acciaio e non è in conflitto di interesse con Ilva, come fu negli anni '80, quando tanti giapponesi stettero con noi italsiderini e ne uscimmo professionalmente arricchiti.
Buona lettura.
Biagio De Marzo _______________________________________
UN’ILVA DEL FUTURO
Michele Emiliano, candidato presidente della Regione Puglia, dice: “Dobbiamo operare per il mantenimento della salute e per la longevità delle persone. Dobbiamo evitare, per esempio, di costruire stabilimenti come quello Ilva di Taranto. Dobbiamo fare in modo che, se deve continuare a funzionare, non nuoccia. L’Ilva, o smette di ammazzare i tarantini o chiude. Non sto a spaccare il capello in quattro.” Andrea Guerra, consulente strategico del Presidente Renzi, dice: “Senza risorse non serve l’AIA, non serve niente. E si portano i libri in tribunale, ma i soldi servono subito, questa è l’unica priorità.” Per me, i punti fermi della vicenda Ilva sono: 1. Non si può negare che l’inquinamento industriale produce malattie e morti. 2. Non si può affermare che morti e malattie cesserebbero appena l’Ilva chiudesse. 3. I ministri della salute e della giustizia sono “desaparecidos” sull’ultimo decreto, come se non fossero stati i danni sanitari all’origine delle vicende giudiziarie. 4. Le questioni giudiziarie in corso e quelle future dureranno decenni. 5. La chiusura totale di Ilva provocherebbe immediata cassa integrazione per anni e tanta altra disoccupazione indotta dalla scomparsa di un grande monte salari. 6. Al di là dei sogni, non c’è possibilità effettiva ed immediata di realizzare subito piani alternativi. 7. L’attuale AIA, tanto osannata, è comunque inadeguata e sicuramente monca. Per esempio, al di là degli impegni presi, non esiste ancora l’AIA per l’acqua e per suolo e sottosuolo. 8. Molte prescrizioni “tecniche” dell’AIA sono state imposte all’Ilva con “la pistola alla tempia”: nessuna era corredata di dati realistici su risorse e tempi di realizzazione industriali. 9. Sono passati più di due anni dal fatale “luglio 2012” nell’incertezza più assoluta; nulla in concreto è stato fatto sull’AIA. Pochi soldi sono stati spesi veramente. Qualche grossa impresa (per esempio. Cimolai) impegnata sull’AIA ha mollato gli ormeggi perché mancano i soldi. E’ stata dissestata l’organizzazione manageriale e tecnica dello stabilimento, assicurando finora solo le retribuzioni dei dipendenti diretti. 10. I provvedimenti governativi sono stati pasticciati e sicuramente inadeguati. L’ultimo decreto, ora all’esame del Parlamento, ha avuto l’obiettivo primario di salvare la forza lavoro e di trovare il modo di reperire i soldi necessari, senza i quali “si portano i libri in tribunale” (vedi Guerra). 11. E’ sempre sul tappeto il grande nodo iniziale: far coesistere salute e lavoro, da tutti voluto (incluso la Corte Costituzionale) ma concretamente impossibile da realizzare nelle condizioni date. 12. Le proiezioni di ARPA Puglia dicono che, con una produzione di oltre sei milioni di tonnellate/anno e ad AIA realizzata completamente, per i tarantini resterà un elevato rischio sanitario. 13. Nella configurazione attuale, lo stabilimento a ciclo siderurgico integrale regge economicamente solo con livelli produttivi superiori a otto milioni di tonn/anno. 14. Il piano ambientale approvato, oltre che monco (vedi precedente punto 7), è privo di “implementazione industriale”. 15. La polemica sulla “impunità penale” dei nuovi commissari e loro “delegati” è puerile: solo dei pazzi accetterebbero l’incarico sapendo che, al primo “sgarro” sull’AIA, rischiano di andare in galera; “sgarro” all’interno di questioni di cui non hanno nessuna responsabilità, visto che i tempi eventualmente non rispettati, sono stati fissati da altri e che le risorse necessarie non sono neanche definite. Saremmo all’assurdo che lo Stato (Magistratura) potrebbe punire (legge alla mano) singoli cittadini per non avere fatto cose specificamente ordinate dallo Stato senza che lo stesso Stato avesse dato loro il tempo e le risorse necessarie e indispensabili per fare quanto ordinato.
Che fare allora? Allo stato attuale, dopo due anni e mezzo di tentennamenti ed indecisioni che hanno complicato ulteriormente la già grave situazione , si impongono decisioni durissime e dolorosissime. Ad esempio: a. Convincersi che è necessario adoprarsi affinché si accetti che per qualche tempo ci saranno ancora “morti e feriti” (come in una guerra che combatteremmo lo stesso, anche sapendo che può capitare di lasciarci la pelle); b. Decidere di ridimensionare lo stabilimento a livello di 5 milioni di tonn/anno (parchi materie prime dimezzati, batterie coke dimezzate, AGL/2, AFO/1 e AFO 5, ACC/2 e CCO, TNA/2, ecc.). Secondo stime attendibili di ARPAP, lo stabilimento così ridotto avrebbe un rischio sanitario minimo; c. Rifare il piano ambientale su questa nuova “taglia” di stabilimento e il corrispondente piano industriale, anche con eventuali ardite innovazioni tecnologiche; d. Rivedere parecchie prescrizioni “tecniche” dell’AIA attuale, imposte all’Ilva con “la pistola alla tempia” e non corredate di dati realistici su risorse e tempi di realizzazione industriali. Palliativi rispetto a cose di questo genere sarebbero solo “accanimento terapeutico”. Se si entrasse nella prospettiva sopra delineata, sarebbe meno difficile trovare chi potrebbe fare il “miracolo” di “continuare a far vivere lo stabilimento Ilva senza che ammazzi i tarantini”. Attenzione, però, non va sottovalutata la criticità manageriale. Chi gestirà la nuova impresa? Nessuno dei tre commissari e nemmeno il nuovo Direttore Generale ha esperienza di gestione di aziende grandi come l’Ilva di Taranto. La struttura che aveva l’Italsider pubblica, fatta di manager che avevano costruito la loro esperienza in un articolato percorso, non è oggi disponibile! Ritengo indispensabile farsi aiutare da chi ne capisce davvero di siderurgia e di ambientalizzazione e che non è in conflitto di interessi con Ilva. Lo ripeto con convinzione: occorre farsi aiutare dai giapponesi della ex Nippon Steel Corporation che, anche come impiantisti, sono i migliori siderurgici del mondo e che a Taranto sono già stati e che, di fatto, non sono direttamente interessati al mercato dell’acciaio europeo. Un’ultima annotazione. Alla Magistratura compete far rispettare la legge, al di là anche di eventuali conseguenze sociali, e non può accettare compromessi. Male hanno fatto tutti quelli che non hanno colto per tempo i segnali (non solo segnali ma anche documenti scritti) pervenuti anche dalla Magistratura. Adesso sta a loro, e segnatamente alla Politica, trovare un compromesso equo, realistico, pulito e trasparente, facendo in modo che la Magistratura non sia costretta a mettersi di traverso.
Taranto 6 febbraio 2015 Ing. Biagio De Marzo
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