L’editoriale di Mimmo Mazza su “La Gazzetta di Taranto” del
9 novembre 2014 dal titolo “Ilva, chiudere l’area a caldo speranza di
salvezza” induce a un commento per la riconosciuta autorevolezza del
giornalista e per l’enorme importanza e complessità del tema posto.
Mazza scrive di un “progetto che preveda la chiusura
dell’area a caldo, con lo smontaggio dei relativi impianti ed il loro
trasferimento in un luogo ove fare le bramme, materia prima per la rimanente
area a freddo”. Ritengo che sia un’utopistica ipotesi, irrealizzabile per
concreti problemi economici, tecnici e temporali.
E’ opportuno ricordare, per prima cosa, che l’Ilva di
Taranto, per le sue caratteristiche di ciclo integrale e per la sua elevata
capacità produttiva, senza l’ “area a caldo” non riuscirebbe a stare sul
mercato. La produzione delle “aree a freddo” (coils, lamiere e tubi) diverrebbe
proibitiva per le difficoltà di approvvigionamento delle bramme sui mercati
internazionali in relazione ai volumi in gioco ed alla qualità dei prodotti e
per il maggiore costo delle bramme di acquisto rispetto a quello delle
bramme prodotte nel proprio stabilimento. In più, la chiusura di cokerie,
altiforni e acciaierie comporterebbe l’automatica indisponibilità dei gas
prodotti nei processi di quegli impianti, gas impiegati come combustibili nelle
centrali elettriche e nei forni di riscaldo dei laminatoi. Le centrali
elettriche non potrebbero, quindi, produrre l’enorme quantità di energia
elettrica indispensabile per far funzionare le “aree a freddo”. Teoricamente e
tecnicamente sarebbe possibile alimentarsi dall’esterno di gas metano, o
direttamente di energia elettrica, ma con costi maggiori. Con i maggiori costi di
bramme ed energia, quello che resterebbe dello stabilimento siderurgico privo
dell’ “area a caldo” non sarebbe più in condizioni di competere con i
produttori concorrenti.
Il trasferimento dell’area a caldo in altro luogo (dove? In
Italia? In Africa? A cura e spese della stessa proprietà dell’ “area a
freddo”?), possibile solo in teoria, è inimmaginabile per l’enormità dei costi
da sostenere e dei tempi necessari. Si tratterebbe di smontare, trasportare e
rimontare: strutture e impianti di enormi parchi primari e secondari con decine
di mastodontiche macchine movimento; cokerie; agglomerato, quattro altoforni,
due acciaierie LD, cinque colate continue, due centrali elettriche,
fabbriche ossigeno, ecc.. Il tutto preceduto da colossale progettazione, realizzazione
di immense opere di fondazione, ragnatele chilometriche di tubazioni per fluidi
e gas. Dove trovare tali inimmaginabili risorse e tempi? In confronto, i numeri
ipotizzati per i soli adeguamenti dell'Autorizzazione integrata ambientale
(Aia) sono poca cosa. E gli attuali possibili acquirenti di Ilva non
intendono accollarsi neanche quelli.
Sono due anni e mezzo che si cerca una soluzione vincolata
al mantenimento di circa 20.000 posti di lavoro diretti ed indiretti e
all’abbattimento dell’inquinamento che comporta danni sanitari e lutti.
Come si fa a rimediare in un paio di anni alle malefatte di
oltre 40 anni? Chi mette in campo la montagna di soldi che occorrono? Scoppiato
lo “Tsunami Todisco”, Parlamenti e Governi, a cominciare da Monti, non sanno
cosa fare, procedono a tentoni, apprendono poco alla volta in che ginepraio
inestricabile ci troviamo. Tutti, in primis i sindacati, i lavoratori e
moltissimi cittadini, hanno il terrore per la perdita di ventimila
posti di lavoro; il resto è sullo sfondo, farebbero qualunque cosa, salvo poi
pentirsene.
Tutti i numeri in campo sono
allucinanti, concatenati tra loro e paralizzanti. Il dramma, o l'inganno,
è che vengono presentati spezzettati, da ciascuno pro domo sua, talvolta
accompagnati da ipotesi irrealistiche. L'unica cosa certa
è che la via giudiziaria è intrapresa, che durerà un'eternità,
che porterà, forse, delle punizioni ma non delle soluzioni, che spettano ad
altri e in tempi diversi da quelli giudiziari. Chi ha il coraggio di indicare
soluzioni da “lacrime e sangue”?
Ing. Biagio De Marzo