La Corte di Cassazione ha confermato gli arresti ai
domiciliari per i Riva, proprietari dell’Ilva di Taranto. La rabbia degli
operai perché diventa difficilissima la situazione dell’azienda. Emilio e
Nicola Riva, padroni dell’Ilva e l’ex direttore dello stabilimento, Luigi
Capogrosso, restano sotto accusa per disastro ambientale, lo ha deciso la
Cassazione. Sale la tensione in una azienda ormai sull’orlo dello stop. E il
maxisequestro dei beni dei Riva rischia di compromettere l’approvazione del
piano industriale con ripercussioni occupazionali per circa ventimila
dipendenti, in tutto si stima quarantamila posti di lavoro per l’eventuale
chiusura dell’Ilva che porterebbe anche al collasso del comparto siderurgico
italiano. Il ministro Zanonato ha incontrato i vertici dimissionari
dell’azienda mentre il premier Letta, vedeva i sindacati. Squinzi ha riferito
che su questa vicenda si gioca una partita decisiva per il futuro del Paese.
Per questo c’è chi sostiene un intervento più forte dello stato come il governatore
della Puglia, Vendola. La magistratura ha sequestrato nei giorni scorsi circa 8
miliardi di euro che appartengono all’Ilva, il cui cda si è riunito ieri in
seduta straordinaria e ha fatto sapere che il provvedimento mette in pericolo
la continuità aziendale, quindi sia la produzione, sia gli interventi di
bonifica sarebbero a rischio. Per Confindustria Taranto sugli sviluppi del
caso, si tratta di un sequestro incomprensibile. Si è riunita d’urgenza ed ha
chiesto un tavolo di crisi permanente esteso a tutto il comparto siderurgico e
l’apertura imminente di un tavolo di crisi permanente al Governo. Il sequestro
sempre a parere dei componenti della giunta di Confindustria Taranto, oltre
ad aver assunto proporzioni spropositate – come si legge in un loro comunicato
- va soprattutto in netta controtendenza rispetto agli impegni che la società
ha assunto sul fronte degli adempimenti di ambientalizzazione della fabbrica.
L’ ingentissimo sequestro, infatti, va a “congelare” l’approvazione del piano
industriale con il conseguente iter di applicazione dell’Aia, che come è noto è
condizione essenziale per il processo di ambientalizzazione della fabbrica. Un
provvedimento – questo il parere unanimamente espresso dalla giunta – che va
inevitabilmente o a sconvolgere i delicatissimi equilibri raggiunti in dieci mesi
di accesa vertenza fra Ilva, magistratura e governo; o a inficiare un impianto
altrettanto strategico di referenti–chiave nominati ad hoc al fine di mantenere
un costante dialogo col governo (vedi le nomine di Ferrante e da ultima quella
di Bondi); o a rimettere bruscamente in discussione i termini stessi di un
rapporto già travagliato (quello fra la fabbrica e la città) che sembrava aver
raggiunto un pur difficile punto di convergenza; o a produrre forte preoccupazione
in tutto l’indotto, che, proprio in un momento in cui si intravedevano spiragli
di risalita dovuti alla ripresa produttiva all’interno dello stabilimento, si è
visto azzerare tutti gli ordinativi già assegnati; o a vanificare – e qui sta
l’aspetto più grave - l’attuazione e quindi l’imposizione stessa dell’Aia quale
garanzia di applicazione di misure severe e incontrovertibili a garanzia della
tutela dell’ambiente. Malgrado le rassicurazioni fornite dalla magistratura
all’indomani del provvedimento circa la possibilità per l’azienda di mantenere
i livelli produttivi e occupazionali, l’ingente sequestro pone di fatto seri
pregiudizi sia circa l’effettiva possibilità per l’Ilva di proseguire nella
produzione sia, come già ribadito, nel far fede agli impegni assunti in sede
governativa sul piano degli adempimenti di adeguamento ambientale degli
impianti.E’ evidente come la vertenza assuma oggi un rilievo di carattere
nazionale e purtroppo inedito, e come tale vada gestita, attraverso la richiesta,
da parte di Confindustria nazionale, della convocazione di un tavolo permanente
di crisi presso il Governo centrale. Sempre per Confindustria Taranto è palese
che quanto finora adottato dal precedente governo non possa più bastare per far
fronte ad una emergenza che va ben oltre gli scenari locali e che investe la
siderurgia italiana nelle sue varie articolazioni, con l’effetto domino che
inevitabilmente si teme per gli impianti produttivi direttamente ed
indirettamente interessati ai provvedimenti di sequestro dei beni della
holding. A repentaglio, infatti, non è più un singolo stabilimento ma un intero
sistema industriale: una prospettiva che condanna tutto il Paese ad un impoverimento
senza ritorno che Confindustria Taranto si sente in dovere di scongiurare.
Vito
Piepoli