Il fascino della bellezza ha un destino
rotto. Bisogna impare a vivere in un destino rotto se si vuole insegnare ad
avere pazienza. “Habere, non haberi”. Gabriele D'Annunzio è come se
suonasse sempre i tasti di un "notturno". Sia nella poesia che nel
romanzo o nel teatro. La vita si vive per consegnarla, impeccabile, al destino
come una opera d'arte. Possedere. Non essere mai posseduti. È uno scavo
di esistenza. Non un atteggiamento. Proprio nel Piacere ci annuncia:
“Habere, non haberi” , ovvero “Possedere, non essere posseduto”.
Ogni decadenza è decadenza culturale perché
il suicidio della politica passa inevitabilmente attraverso l'omicidio della
cultura. Il piacere, il paradisiaco, l’innocenza, la morte, il segreto e il
fuoco trovano nel notturno la magia e il suono delle alchimie.
Nel racconto melanconico di Gabriele
D’Annunzio le donne sono la pietra angolare nel suo scrivere. Il fascino
delle donne dopo i cinquanta è affascinante ed elegante. A quaranta è
ossessivo. Prima è compassionevole nella irridente passione giovanile. Una
illuminazione o un senso di dolore che attanaglia il dannunzianesimo ad
oltranza.
Quando si è giovani la pazienza non solo è
irrisoria, ma inutile. Quando si è meno giovani, ovvero dopo i sessanta, la
pazienza è un obiettivo per diventare silenziosamente trasgressivi e ironici.
Il Vittoriale è l’orgia del silenzio e del ricordo masticati tra le parole che
si stradicano per avere un senso erotico.
Perché nel momento in cui la parola muore il
tragico diventa delirio del presente e soltanto in questo momento del delirio
supremo recuperi il senso del tempo che cui partecipa le assenze e le
dissolvenze.
Bisogna saper vivere nelle dissolvenze se si vuole
morire alla morte e rinascere nel diluvio dell’eterno che non ha mai la
finitezza dell’infinito.
Vivere e sempre vivere rinnovandosi vivendo
altrimenti lasciarsi morire: “O rinnovarsi o morire”.
Sempre il delirio è in agguato. Ma di delirio
è necessario vivere per non essere solidale con una morte qualsiasi. Non
sapremo mai quando sono alte le torri del castello sia di quello che ci sta di
fronte che quello in cui abitiamo. Bisogna uscire dal castello per rendersi
conto e comprendere il fascino del ritorno. Questa è una lezione nicciana che
trovo intatta sia in D’Annunzio che nella mia testimonianza di vita.
Ci sono
momenti in cui per vedere quanto sono alte le torri bisogna uscire dalle mura
della città (Nietzsche). Altrimenti tutto diventa incomprensibile. Poi si
ritorna perché troppo si è compreso. Questo è il mondo nel quale mi sono
formato. Ovvero quello di Nietzsche di Zambrano di D'Annunzio. Bisogna
accostarsi alle torri per capire le dissolvenze.
Ogni
decadenza è decadenza culturale perché il suicidio della politica passa
inevitabilmente attraverso l'omicidio della cultura. I secoli sono offesi
dall’omicidio della cultura. La bellezza non muore. Viene dimenticata,
oltraggiata, derisa, sciupata dalla luce senza brividi. Occorre sempre cercarla
e difenderla: “Difendete la Bellezza ! È questo il vostro unico officio”.
Viviamo di ferite e di difficoltà ma guai a non confrontarsi con i problemi.
D’Annunzio ci dice: “Cum lenitate asperitas”, ovvero “Le difficoltà vanno
trattate con dolcezza”.
In una
Lettera ad Alessandra Carlotti di Rudinì D’Annunzio ha chiosato: “Credo
nell’esperienza di un fato che ci genera e ci costringe a sporcare la faccia
del mondo per vedere come ce la caveremo. Per difendermi ho imparato a
maneggiare il fango. In fondo solo con il fango una mano sapiente può costruire
qualche cosa che resista al fuoco. Anche se i più lo maneggiano non per
costruire, ma per insozzare e per distruggere”.
La ricerca
della bellezza resta un pilastro nella metafisica del tragico di un D’Annunzio
che è sempre più legato al mito e agli archetipi.
Profetico
anche sulla sua morte. Muore per essersi annoiato. E sa bene che “L'uomo a
cui è dato soffrire più degli altri, è degno di soffrire più degli altri”.
Bisogna, comunque, sempre uscire dalle pareti tra le quali abbiamo vissuto e
osservare le torri del castello altrimenti resteremo sempre prigionieri di non
aver constatato l’altezza delle torri. Non solo. Resteremo prigionieri di una
sensazione che è quella di non aver mai osato giungere dove sarebbe stato
possibile arrivare.
Il tempo è tragico ma bisogna toccare la
tragedia per non morire senza essersi annoiati o per morire essendosi
annoiati abbastanza. In questo cerchio solo il grido della tentazione ci può
attrarre.
Facciamoci attrarre dalla attrazione della
volontà e della potenza per vivere come Ulisse, uomo mai distratto e sempre
cercatore di passi da solcare e acque da navigare perché tutto ciò che si ha
non è mai abbastanza o è semplicemente pensato non necessario. D’Annunzio è il
camminatore delle isole inesistenti ma esistite nella volontà e nella potenza.
Bisogna non
andare oltre i ripari della nostalgia. Essere impareggiabili per memoria ma
soprattutto per pazienza. Oltre ci attente solo il deserto. In fondo, occorre
essere pazienti per non morire di oblio. E si muore di oblio e si muore di
nulla. In un tempo in cui la mediocrità ci calpesta bisogna soltanto imparare
ad avere pazienza. Per insegnarla agli spiriti che credono alla ribellione.
L’uomo in rivolta alla fine non crede più alla ribellione e le masse in rivolta
non resistono alla rivoluzione del tragico.