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Sul Convegno della Magna Grecia.
Smettiamo di essere considerati vittime e scippati. Ragioniamo con un pensiero progettuale

mercoledì 21 febbraio 2018

Pierfranco Bruni

Mi auguro che si riescano a sgombrare, quanto prima, nuove e vecchie polemiche sulla questione riguardante la Magna Grecia , Taranto e il Convegno Internazionale di Studi dedicato, a partire dagli anni ’60, alla visione archeologica, alla ricerca e al confronto tra studiosi. Convegno che ha avuto un ruolo notevole all’interno di una visione complessiva di archeologia accademica e “sul campo”.

A Taranto si sono sviluppati complessi dibattiti sulle problematiche legate all’archeologia in un contesto anche di ordine politico (si pensi ad un ordine del giorno durante il Governo Berlusconi), e proprio in virtù di ciò ritengo che, in quegli anni, sarebbe stato opportuno creare un raccordo non soltanto scientifico, ma anche didattico, pedagogico, antropologico con il territorio e con le altre realtà culturali, geograficamente vicine come modello di studi sul Mediterraneo e alla realtà del legame tra archeologia, beni culturali e valorizzazione. Posi la questione, tra il 1995 e 1999, ad Attilio Stazio più volte.

Di certo un convegno di studi sul piano scientifico deve tenere fede a una contestualizzazione epistemologica, ma è altrettanto vero che le idee di Carlo Belli, quando volle fortemente il Convegno a Taranto, erano rivolte a un modello di educazione ai beni culturali.

Nei primi anni ‘60 il Convegno puntava ad articolare il dato scientifico a quello didattico. Carlo Belli lo specifica sia in alcune lettere indirizzate ad alcuni rappresentati politici di Taranto, che in alcuni articoli apparsi sul Tempo e su altri quotidiani e periodici come la rivista Magna Grecia. Articoli, che puntavano ad una apertura tout court della archeologia alle diverse culture e a quelli che noi oggi chiamiamo “nuovi saperi”. Era questo l’obiettivo. Era l’obiettivo anche di Pugliese Carratelli. Con il tempo il Convegno si è sempre più ristretto a una cerchia di accademici e studiosi, con grande dolore di Carlo Belli. Un aspetto che ha come conseguenza l’impossibilità di un raccordo e di una dialettica con i modelli archeologici e, soprattutto, con i modelli dei beni culturali che si sono sviluppati nel corso degli anni.

Il Convegno della Magna Grecia nasce all’inizio degli anni ‘60 all’interno del pre-dibattito della Commissione Franceschini, che poneva al centro il bene culturale come modello educativo. Qualche anno dopo, nel 1975, viene istituito il Ministero dei beni culturali da una costola del Ministero dell’Istruzione. Nel tempo il dibattito si è sviluppato ulteriormente con il Codice dei beni culturali del 2005, passando attraverso il Decreto Ronchey (che manifestava già una apertura molto vasta rispetto al territorio) con il successivo Testo unico di anni recenti.

Cosa c’entra tutto questo? Ha importanza perché se si perde di vista la visione del bene culturale non si comprende il ruolo di un Convegno rispetto alla visione moderna del bene culturale.

Era implicito il fatto che con la Riforma Franceschini , che si apriva al territorio e che concepiva il modello storico dei beni culturali come patrimonio di una attività culturale, fosse necessario creare dei presupposti affinché la ricerca scientifica potesse avviare una dialettica articolata con il mondo accademico, non accademico e con le attività didattiche.

Mi sono trovato personalmente a confrontarmi con il Convengo della Magna Grecia quando, tra il 1995 e il 1999, sono stato Vicepresidente della Provincia di Taranto e assessore ai Beni culturali. Ricordo perfettamente le grandi lotte di quegli anni. Il Convegno, in quel periodo ricevette un finanziamento che andava da 80 a 100 milioni (a convegno). L’obiettivo era quello di realizzare mostre ed eventi di una certa caratura. Si mirava ad un avvicinamento con le scuole e ad estendere il Convegno ad altre città, non solo a Taranto. Fu allora che venne avviato un discorso di ampio respiro.

Tutti aspetti che non bisogna dimenticare per una lettura comparata della realtà, diversamente si corre il rischio di inserirsi in un dibattito monco e “populista” senza avere la cognizione dei passaggi che il concetto di bene culturale ha avuto.

Sono del parere che il mancato finanziamento al Convengo degli Studi della Magna Grecia, pur nella sua gravità, debba essere letto in una prospettiva migliorativa, in direzione di una maggiore coerenza con la società di oggi che è in costante transizione. Se la società contemporanea è in continua trasformazione, perché i beni culturali non dovrebbero orientarsi verso una maggiore ricerca, tutela e valorizzazione del bene stesso?

Chi assiste alle sedute del Convegno dovrebbe avere la possibilità di cogliere il legame tra archeologia e storia, tra un asse geografico e un altro. Non si tratta soltanto di una mostra di rinvenimenti e di ricerche effettuate nel corso dell’anno. Sarebbe auspicabile educare ad una filosofia dei beni culturali, nel caso specifico, ad una filosofia dell’archeologia, aspetto totalmente assente attualmente. L’archeologia non ha alcun senso senza una dimensione metafisica.

È giusto che ci si lamenti. Che si traggano conclusioni di delusione nei confronti del mancato finanziamento al Convegno. Questo, però, impone una analisi dei fatti, una riflessione nei confronti di quella non strategia della cultura che la città di Taranto ha portato avanti fino ad ora e che non ha condotto a nulla di positivo. Non si deve giustificare il mancato risultato con il fatto che Taranto viene “scippata”. Dobbiamo smantellare questa idea. Bisogna, invece, entrare nell’ottica in cui Taranto non deve farsi “scippare” perché ha una sua progettualità, progettualità che al momento purtroppo manca. È questo il dato saliente del discorso.

Il Convegno della Magna Grecia, nei quattro anni in cui rivestivo la carica di assessore, rientrava nell’ambito di un Progetto che riguardava il Mediterraneo e la Magna Grecia , che includeva il Magna Grecia Festival, gli Ori di Taranto, il Posejdon… portatore di un dialogo tra antico e moderno. Se così non fosse stato, non avrebbe avuto senso finanziare un convegno con una simile somma di denaro.

È questa la lettura che bisognerebbe dare. Il Convegno è un appuntamento annuale che non risulta collegato ad una visione più ampia del discorso, più articolata del bene culturale che rappresenti anche una metodologia delle funzionalità delle economie sommerse.

L’archeologia è una economia sommersa che potrebbe essere in grado, concepita nella giusta ottica, di superare quegli steccati economici che identificano una città come Taranto. L’idea di investimento deve giungere attraverso i canali delle risorse, non da una stanza chiusa.

Ecco allora perché, pur non giustificando il mancato finanziamento, ma cercando di comprendere come vanno letti i fatti, non ritengo opportuno, né tantomeno costruttivo, appellarsi ancora una volta al discorso dello “scippo”. Si è gridato allo “scippo” anche quando gli Ori di Taranto sono stati trasferiti in Giappone. Se non ci fosse stata quella trasferta, noi oggi staremo ancora ai tempi dei labirintici significati mitici di Arianna. Quell’evento ha attribuito un significato internazionale preciso al Museo di Taranto e ai Beni archeologici.

Iniziamo a ragionare con un’ottica diversa sui beni culturali. Facciamo in modo che Taranto sia realmente la città del Mediterraneo, attraverso diversi modelli di progettualità e non soltanto di episodicità. Un convegno annuale è una episodicità annuale. Non è con l’episodicità fine a se stessa che si fa cultura. La cultura si fa con la progettualità e non con conversazioni e singole relazioni completamente da superare se manca un serio Progetto Magna Grecia.

Inseriamo, allora, il Convegno all’interno di una maggiore visione di interpretazione che comprenda tutto il territorio mediante attività pre e post Convegno, dal carattere forte, organizzate nel corso dell’intero anno.

Io ero definito “l’assessore della convegnite” e ciò mi rendeva orgoglioso. A quei tempi si svolgevano due convegni al giorno nelle scuole, nel territorio, nelle province. Taranto era nella lista delle città che promuoveva più cultura in Italia (Cfr “Il Sole 24 Ore”). Questa serie di eventi avevano creato un’idea di progettualità della cultura. Si ragionava di dimensione culturale in termini dialettici. Eravamo il centro di riferimento dei beni culturali per l’Unesco e per il Mibact di allora. Mica si sono permessi di scipparci il progetto “Museo sotto le stelle” o “La scuola adotta un Monumento” o la Mostra “Ori di Taranto” a Taranto!

Certo, occorrono capacità e formazione, oltre a una nuova prospettiva e funzionalità nell’ambito di un percorso in cui l’iniziativa non sia episodica, ma inclusa in una dimensione di ciclicità di eventi. Soltanto in questo modo Taranto può venir fuori da questa secca nella quale è caduta.

Smettiamola di considerarci vittime di esseri “scippati”!




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