La Lingua madre ha sempre avuto una
funzione fondamentale nella Identità delle tradizioni. Il 21 Febbraio si
celebra la Giornata internazionale della Lingua. Una Cartella studio,
nell’ambito delle attività di promozione e valorizzazione della lingua
italiana, traccia un preciso percorso tra lingua, linguaggi e scrittori.
La funzione della lingua in un contesto di culture comparate apre un dialogo
vasto tra il concetto di immateriale e materiale all’interno della
decodificazione dei beni culturali. La lingua non è mai ideologia. Ha la sua
dialettica in un processo che è pedagogico e metodologico. Il dibattito aperto
da Manzoni non si è mai chiuso. Così quel grande pensiero che vive nel De
Vulgare di Dante. Bisognerà dare un ruolo consistente alla lingua italiana
soprattutto partendo dalla letteratura del Novecento.
È in essa che si sono moltiplicate le forme e
le metodologie di linguaggio che hanno guidato la storia della lingua nella
modernità, attraversando epoche ed opere già con San Francesco d’Assisi sino ad
Angelo Poliziano, dal Rinascimento alle ‘etichette’ illuministiche, che hanno
cercato di formulare un inciso rivoluzionario, ma che hanno consegnato la
lingua stessa a Manzoni, e da questo alle avanguardie di Pascoli e D’Annunzio,
filtrando notevolmente il Futurismo sino alla lingua post realista, alla quale
la letteratura si è agganciata e alla quale soprattutto il cinema si è
aggrappata.
Dopo gli anni
Sessanta si è verificata una vere e propria modifica dei canoni e se si vuole
di un vocabolario. Dagli anni Sessanta ad oggi la lingua ha assunto precise
chiavi di lettura.
Quella codificata da una norma dei vocabolari
che hanno assorbito i cambiamenti anche sintattici e le forme dialettali, oltre
alla assunzione di comparazioni con la lingua inglese, lingua che in molti
termini ha preso il sopravvento, ma che è la lingua italiana ufficiale.
Quella correntemente parlata che, se pur in
una forma corretta, ha innesti modulari rispetto a quella scritta perché ha
tagli favoriti da un linguaggio piuttosto discorsivo.
Quella cosiddetta “bastarda” che è dovuta
all’intreccio tra una scrittura giornalistica, televisiva, telematica con
ulteriori innesti che sono distanti dalla tradizione degli anni Settanta. La
lingua non è mai ideologia.
C’è una quarta chiave di lettura, non inclusa
in un discorso ufficiale ma insiste, che è quella che proviene dai testi delle
canzoni.
I giovani usano come forme direzionali della
comunicazione l’incrocio delle due ultime chiavi per confrontarsi, per
dialogare, per definire un qualcosa e anche per definirsi.
Io addirittura aggiungerei ancora una quinta
chiave che è quella portata dalla presenza delle lingue degli immigrati. Non
sarebbe da sottovalutare considerato il fatto che sono detentori di un loro
linguaggio comunicante ma sono anche depositari di una loro lingua. Non sempre
il loro linguaggio comunicante, che potrebbe essere inteso come una
caratterizzante formula dialettale, si pensi agli albanesi o agli arabi
tunisini ed eritrei, è fedele alla lingua della loro Nazione. Anzi non lo è
quasi mai.
Tutti questi aspetti riguardano l’importanza
di dare un senso storico alla tutela della lingua italiana. È naturale che non
c’è più una lingua ufficiale tradizionale. La tradizione nelle lingue è un
fatto soltanto di consapevolezza di eredità, di ricostruzione identitaria, di
analisi dei processi sia letterari sia storici stessi sia prettamente
linguistici, ma si scende in una dimensione che è antropologica.
Discutere di una lingua corretta, oggi,
significa ripristinare delle griglie che però, dobbiamo essere consapevoli, non
corrispondono alla realtà dei parlanti e degli scriventi. Il parlante già di
per sé, pur mantenendo fede, alla consueta formula della grammatica e della
sintassi, usa sempre un vocabolario innovativo: innovativo, oggi, è anche il
ripescaggio di termini obsoleti, ovvero una parola usata da Tommaseo è
innovativa ma anche “arcaica”.
Lo scrivente, che dovrebbe usare la lingua
come estetica e correttezza dell’ufficialità e dell’esempio, potrebbe essere lo
scrittore. Dante e Manzoni sono esempi e testimonianze che rispecchiano
un tempo linguistico che non c’è più.
Noi parliamo, in questo nostro tempo, il
linguaggio di Andrea Camilleri, che ha una interpretazione prettamente
etno-antropologica (ne parlo in senso non negativo: attenzione), il linguaggio
di Carlo Emilio Gadda con le varie sfaccettature, anche sul piano della
punteggiatura, (lo dico senza voler entrare nella rivoluzione linguistica
futurista che ha stravolto la lingua italiana: si può accettare o meno ma è
così), il linguaggio di Alberto Bevilacqua con delle sfaccettature anche
discutibili, ma che io accolgo con piacere, il linguaggio di una scrittura
puramente giornalistica trasportata come una nuova impostazione narrante in
testi che si fanno passare per narrativa, il linguaggio attento di Pasolini che
soltanto ora trova una sua interessante ottimizzazione.
Sono solo pochi esempi. Si pensi a Luigi
Meneghello o a Lucio Mastronardi o ad Alberto Moravia o alla poesia di Giorgio
Caproni. Noi viviamo in questa età e non tra Dante e l’Illuminismo o tra il
Romanticismo e Ada Negri.
Poi c’è la presenza degli scrittori stranieri
che, se pur tradotti, vengono ben recepiti sul piano della sintassi ma
soprattutto su quello della punteggiatura. Uno scrittore per una testimonianza
importante: Garcia Màrquez di “Cent’anni di solitudine”. Il romanzo che gli ha
dato la notorietà vira qualsiasi forma di punteggiatura e quella
standardizzazione di concetti ha influito notevolmente nella lingua letteraria
contemporanea. Il fatto, invece, è un altro. Il vocabolario ha un suo compito
specifico che instrada verso una direzione ben definita. Il linguaggio è ben
altra cosa. Non si può imporre allo scrittore, pensate al poeta contemporaneo,
di impostarsi secondo i canoni del vocabolario della lingua. Sarebbe un
omicidio ma sarebbe anche un suicidio della stessa lingua.
Bisognerebbe una buona volta convincersi che
la tradizione del dibattito delle lingue, sviluppatosi intorno al De Vulgari
e anche prima, non interessa e non tocca la comunicazione della letteratura dei
nostri giorni e tanto meno i “lucchetti” parlanti dei nostri figli e delle
piccole macchine parlanti che usiamo tutti per comunicare. E se Dante non
interessa, è storia e deve restare tale, non interessa neppure il rapporto
linguistico tra Manzoni sino a Carducci e a un certo Pascoli.
Dobbiamo convincerci che la lingua italiana è
completamente mutata rispetto agli anni Cinquanta del ‘900. E’ mutata rispetto
agli anni ’70 – ’90. Chi si ricorderà la lingua usata nei volantini delle
Brigate Rosse negli anni Settanta si renderà conto la tipologia sintattica (non
parlo delle minacce o dei codici terroristici ma della grammatica o di altre
scorrettezze morfologiche) che si innervava nella nostra società. In che
termini linguistici, mi sono spesso chiesto, comunicavano le Brigate Rosse con
l’attento e forbito Aldo Moro?
I cambiamenti delle società trasformano anche
la lingua. I cantautori degli anni Sessanta capirono questa trasformazione e a
loro si deve molto nell’aver mantenuto fede ad un codice sostanzialmente in
linea con la tradizione. La cinematografia è andata su un altro versante.
Bisogna affrontare tale questione e credo che una scuola dentro i mutamenti
delle società dovrebbe avere un ruolo predominante. Ma molte volte dipende dai
docenti e soprattutto dai testi adottati. Un altro problema dolente.
Le antologie scolastiche a moduli prima e a
spaziatura articolata dopo sono completamente non convincenti perché svianti.
Sono costruiti in modo che non possono essere compresi senza l’interpretazione
attenta del docente. Che senso hanno avuto i percorsi modulari in una antologia
letteraria?
Io non ho neppure intenzione di affrontarlo
questo discorso perché son ostile a questa interpretazione che permette
soltanto una cosa: la distruzione dei parametri letterari dello scrittore e
l’incomprensione vera di uno scrittore o di un poeta. È come se lo scrittore
avesse scritto per essere inserito in un modulo.
Ma dai, fa ridere questo sistema ed è anche
doloroso sia per lo scrittore che per la storia della letteratura che adotta
un’impalcatura di altro genere. Anche qui è questione di lingua. Lo scrittore e
il poeta non pensano mai di essere strumento della critica, lo si vuole capire
o no, e tanto meno pensano se un domani verranno collocati in un determinato
blocco.
Pensate agli orrori commessi su Cesare
Pavese. Ancora è un modulo neorealista, se lo si fa entrare in un modulo,
quando egli stesso ha scritto di non essere realista o neo, e di non essere
considerato tale.
Insomma, ci troviamo di fronte ad una
ristrutturazione sia della lingua e attraverso la lingua ad una
ristrutturazione della letteratura. Si avrà il coraggio, la forza, la
consapevolezza, la preparazione di mettere in discussione un apparato del
genere?
Noi cercheremo di fare la nostra parte.
Chiediamo alla scuola di fare la sua parte. Ai docenti di non attraversare le
antologie, ma di leggere gli scrittori e i poeti direttamente e agli
antologizzanti di rivedere le loro posizioni di ogni genere o di ogni
struttura.
Gli scrittori oggi, comunque, hanno un
compito fondamentale che non è quello di strapazzare la lingua. Se Dante resta
ancora fondamentale è chiaro che quella tradizione che parte con la Vita
nova è da riconsiderare tra Poliziano, Leopardi, Ungaretti e Pavese.
Bisogna abitarla una lingua con l’anima, come una confessione (Zambrano), come
un destino, come si abita il viaggio. Solo così diventa un bene immateriale
della Umanità e occorre trasmetterla, ovvero difenderla con la fedeltà
della tradizione. In un tale contesto di idee è naturale considerare la lingua
come eredità di civiltà. In tal senso costituisce un modello di eredità dei
popoli.