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Al Museo Archeologico Nazionale di Taranto (MARTA –
MIBACT)
si parla di Ovidio
Il vero interprete del Mediterraneo è Ovidio:
un Bimillenario che
fa discutere
Ovidio lega Ulisse ad
Enea, Medea scrive a Giasone in una civiltà
che giunge sulle sponde Latine
DI PIERFRANCO BRUNI*
La
Grecia e il mondo latino sono un incontro non solo metafisico e letterario ma
anche geografico e storico. Ovidio ha raccontato Roma raccontando la Grecia. A
cominciare dai suoi “Amores”. Ci sono percorsi importanti in cui la grecità
diventa nostos. Si pensi ad uno dei suoi ultimi testi scritto in esilio in
Romania, “Tristia”. Quella tristezza ovidiana è il nostos che si aggrappa
all’anima.
Il tempo
misura sempre gli anni e gli anni si fanno memoria sia negli uomini che nella
letteratura perché la letteratura decifra le esperienze degli uomini.
Decifrando le esperienze degli uomini, porta dentro di sè il linguaggio dei
modelli, che sono per lo più modelli esistenziali, il cui corpus costituisce un
intreccio tra il quotidiano (ciò che noi vorremmo fosse il quotidiano) e quello
che dietro il quotidiano si nasconde come dimensione onirica.
Ovidio (Sulmona, 20 marzo 43 a .C. –
Tomi, 17/18 d. C.) ha rappresentato, nella complessità della sua opera, un
intreccio tra metafisica della parola e filosofia stessa della parola.
“Metafisica” e “filosofia” potrebbero, quindi, costituire le chiavi di lettura
per comprendere il suo rapporto con i linguaggi. Proprio nei suoi inizi
Ovidio è ripetutamente più greco che romano. Gli amori sono gli amori cantati
dagli alessandrini. Ricerca la grecità nelle donne greche, come Penelope, e
orientali come Didone e il mondo asiatico con Enea è dentro la sua
partecipazione umana e letteraria (penso alle “Heroides”).
Per Ovidio i linguaggi non sono soltanto
comunicazione, bensì espressione lirica all’interno dei processi esistenziali
che diventano onirici mediante la poesia. Si pensi alle “Metamorfosi” che
simboleggiano il caposaldo di una letteratura alla quale faranno riferimento
tutti i protagonisti delle letterature moderne a iniziare da Dante. Senza le
“Metamorfosi”, che esprimono il centro di un rapporto tra mito e simbolo, tra
archetipi e dimensione metaforica del termine, Dante avrebbe forse scritto
diversamente la sua “Divina commedia”.
Sono le “Metamorfosi”, riprese in
seguito da altri autori, fino alla suggestiva trasposizione che ne fa Kafka, a
raccontare, attraverso un recupero della grecità, un passaggio di civiltà tra
il mondo greco e latino. Ma in Ovidio i miti o il mito in sè non avrebbe senso
se dovessero venire meno questi passaggi, a mio avviso di un’importanza
notevole, tra la parola poetica, la parola parlata e la parola concordata con
il quotidiano.
Si pensi
anche alla sua “Ars amatoria”, alla sua poesia, a quella poesia che è un
battito costante dell’anima, un battito costante del cuore, ma che diventa un
battito costante di un rapporto tra fisicità, carnalità e pensiero filosofico.
Il legame tra anima e carnalità in Ovidio costituisce il nodo scoperto che si
trasforma, a sua volta, in quello che Pirandello definirà “la maschera
dell’altro”. Pirandello, che aveva conosciuto e studiato Ovidio, porta dentro
di sè, soprattutto nel “Mal giocondo”, queste visioni, queste trasformazioni.
La donna per Ovidio diventa la grande passione che unisce la dimensione onirica
dell’anima, quindi l’esistenza della centralità dell’anima, con la passione
della carnalità. Non può esserci amore, in questa arte amatoria, se questi due
aspetti non arrivano a coincidere. Dunque il sangue, come forma di una
tradizione, diventa carne e in Ovidio la carnalità, o la fisicità, ha una
trasposizione, in fondo, con la metafisica.
Comprendere
questi aspetti in Ovidio significa anche recuperare il senso di ciò che egli
stesso ha definito “arte di amare”, poiché l’arte di amare in Ovidio diventa
(ed è tale) una condizione dell’essere uomini e del vivere all’interno della
consapevolezza e della coscienza dello stesso “essere uomini”, tant’è che i
suoi piccoli grandi amori lo hanno portato ad essere il protagonista di una
dimensione che parte dal dato lirico-onirico per poi diventare un vero e
proprio modello scavante nei linguaggi.
Cesare Pavese
ha studiato molto Ovidio. In “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” sono
presenti parecchi elementi che rimandano a questa dimensione onirica. Il senso
onirico in Pavese diventa quel senso del tragico che troviamo in “Verrà
la morte e avrà i tuoi occhi”. Anche in Ovidio vi è lo stesso senso del
tragico.
Come si
manifesta in Ovidio il senso del tragico? Si manifesta con la propria vita, con
il proprio essere, con la propria esistenza. Lui vive la realtà dell’esilio ma,
allo stesso tempo, vive anche la metafora dell’esilio. Da Sulmona viene
esiliato prima a Roma e poi in Romania dove morirà con la grande visione del
ritorno. In lui è presente la grande dimensione del nostos. Si ritorna
al concetto omerico, quel concetto che diventerà la “visione omerica” nella
cultura occidentale. Ma tutti i miti, i simboli, che sono miti e simboli di una
cultura occidentale in Ovidio, anche in questo caso si trasformano in
un’articolazione antropologica del recupero degli archetipi. Ecco perché è
necessario acquisire una visione complessiva di Ovidio partendo proprio da
questo intreccio tra la metafisica delle “Metamorfosi” e l’arte amatoria,
perché in questo viaggiare, nella sua arte amatoria, c’è tutta la
consapevolezza che Ovidio non solo resta antico, ma che quella sua antichità
rispecchia la nostra contemporaneità. Il legame tra contemporaneità e modernità
nel linguaggio poetico nasce proprio nel momento
in cui Ovidio trasforma le sue “Metamorfosi” in una dimensione onirica.
Dicevo
del suo esilio. L’esilio di Ovidio è stato un esilio forte, come lo è stato
quello di Pavese quando è stato esiliato a Brancaleone Calabro portandosi
dietro le sue radici, il suo radicamento. Ovidio porta in Romania il suo mondo
romano, ma anche in quel contesto la Romania era una penisola in sè,
metaforicamente un’isola della latinità e questo mondo latino diventa a sua
volta anche consapevolezza che la poesia è universale. È questo il motivo per
cui continuiamo a parlare di Ovidio, ricercando l’equilibrio nella sua poesia.
Tuttavia, sarebbe opportuno riconsiderare il legame tra arte poetica, arte
linguistica e arte d’amare.
Siamo
alla concezione dell’arte. Ma l’arte è dentro la grecità della plasticità
con la quale Ovidio legge i monumenti. La grecità è l’immortalità degli dei.
D’altronde la letteratura successiva leggerà in Ovidio la sintesi delle due
civiltà.
Forse
tra gli antichi, Ovidio è stato colui che ha inserito, in maniera più
suggestiva, l’estetica nell’ambito di queste tre caratteristiche artistiche. È
stato un grande poeta dell’estetica e dell’arte amatoria. È diventato tale,
rappresentando l’arte amatoria nella parola, mediante la contemplazione della
dimensione estetica della parola. L’arte amatoria, l’arte poetica e l’arte
d’amare diventano in lui (e grazie a lui) un vero e proprio vocabolario
dell’estetica.
Ovidio
simboleggia un vocabolario della poesia d’amore, ma nello stesso tempo,
rappresenta un’enciclopedia di quei miti, di quei simboli, di quella stessa
ritualità e gestualità che troveremo intatta in Dante Alighieri. Ma il Dante
nazionale è il poeta che si tuffa tra le “Metamorfosi”, soprattutto nei Canti
dell’”Inferno”.
La
vera originalità di Ovidio, comunque, resta nelle “Lettere di Eroine”, nelle
quali la classicità diventa modernità e Ulisse, Achille, Enea, intrecciati a
Saffo assistono ad una interazione tra Grecia e Troia. Sì, perché le lettere
tra Paride ed Elena e viceversa vanno oltre gli amori e la poesia stessa perché
rivelano le interazioni storiche e metafisiche tra la Grecia , l’Asia e Roma.
Ovidio tutto questo lo aveva ben capito.
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Responsabile Nazionale del Progetto Etnie Letterature del Mibact