"Sono così impastato di letteratura che non
saprei farne a meno". Così Pierfranco Bruni mi cattura nel suo "Luigi Pirandello. Il tragico e la
follia" (Nemapress edizioni).
Lo scrittore che narra l'autore ed io
che leggo lo scrittore, cogliendone una scrittura che sa di rito, di magia, di
solitudine.
Quella
solitudine che accomuna entrambi, che ritrovo nei "suoi" autori, sui
quali abile vola ed atterra con piacevoli tocchi di penna, tra l'estasi di
D'Annunzio, la metafisica di Dante, attraverso i centomila volti di Pirandello.
I
nostri autori italiani, nel grandangolo di Bruni acquistano luce nuova,
divengono a noi contemporanei, bruciano distanze di luogo e di tempo e le loro
angosce, follie e speranze diventano le nostre.
La sua lettura di Pirandello sa trasformare
l'inquietudine di vivere in forza per rinascere sempre, ogni giorno, per
accettare la vitale follia del quotidiano malessere, fissando il passato che ci
portiamo dentro.
Afferma: "Quella poesia che non è verso soltanto
bensì cocci di esistenza stesi sulla graticola dell'umano morire, che non è
l'umano morire del tempo. È il morire umano delle civiltà che abitano le nostre
esistenze".
Pierfranco Bruni, come Pirandello, vive ciò che scrive
ed io lo colgo in ogni riga. Lui si ritrova in Pirandello, come io mi specchio
tra le sue righe. Un gioco di volti, che si fondono nella magia della
scrittura.
Ma il rapimento letterario che più mi inchioda alla
sua tragico-folle narrazione lo vivo quando Pierfranco Bruni ne "Il
tragico e la follia" osa lasciarsi ispirare dall'arte dolce dell'amore;
quando presta la sua sottile penna a due amanti legati da parole, lettere e
silenti intese: Luigi e Marta Abba.
Libero
interpreta il loro amore, dà forma alle frasi non dette, indossa due maschere,
le loro, o forse ne indossa tre e si incammina curioso di sapori ed odori alla
ricerca di una meta aulica per ritrovare il fuoco vivo della cultura e
l'ebbrezza senza età, tanto folle quanto vera, della passione che brucia tra
silenzi e tormento.