Nell’anno
pirandelliano il Mediterraneo di Verga resta un confronto profondo
di
Marilena Cavallo*
Potrebbe esserci una
comparazione, una diversità, un’alterità tra il Verga dei Malavoglia, di
Mastro don Gesualdo, quindi il Verga popolare antropologicamente
focalizzato in quella Sicilia in cui la cultura popolare diventa cultura dei
linguaggi, cultura di un’etnia ben sistematica all’interno del territorio, e
Luigi Pirandello del Fu Mattia Pascal e di Uno, nessuno, centomila.
Credo che già questa
riflessione diventi rischiosa, azzardata. Verga e Pirandello, sebbene siano
nati nella stessa regione (e pur Pirandello avendo amato profondamente Verga)
ritengo che ci siano delle diversità di fondo tra il Pirandello, nella
complessità della sua opera, e Giovanni Verga.
Pur approfondendo
l’aspetto antropologico e letterario, credo che le diversità siano da
rintrecciarsi in quel contesto chiaramente nato su un tessuto demoetnoantropologico
della letteratura. Verga appartiene a una cultura profondamente popolare,
profondamente radicata all’interno, non dei personaggi che ha rappresentato,
bensì dell’ambiente che ha ricostruito; perché Verga ricostruisce un ambiente,
vive di ambienti, si serve dell’ambiente, anche se è naturale che i personaggi
diventino punto centrale, ma ciò che fa la narrativa di Verga è l’ambiente in
sé, ovvero il “realismo” fino a giungere al contesto dei Malavoglia in
cui si verifica la partenza, la fuga, chiamiamola in questi termini, della
Provvidenza, cioè di andare oltre la Sicilia, perché quella “Provvidenza”,
quella barca, va a picco nel mare e la “provvidenza” la si cerca
metaforicamente altrove.
La visione della
“provvidenza” in Verga ha una sua caratura di origine religiosa, una
religiosità popolare ben radica all’interno di un tessuto geografico le cui
radici sono sempre radici mediterranee.
Verga invece di
ricontestualizzare il personaggio, ricontestualizza più volte la
rappresentazione del reale. Pirandello, al contrario, sottolinea l’importanza
del luogo, del “luogo non luogo”, potremmo dire in termini antropologici.
Sottolinea l’importanza delle sue origini, della sua nascita in quel tessuto territoriale,
in quell’incipit della sua stessa vita che è il caos ma, parimenti,
attribuisce un ruolo principale di straordinaria importanza ai personaggi.
Se Verga parla
attraverso l’ambiente, Pirandello parla attraverso i personaggi e ai personaggi
destina un destino che è il proprio destino, in fondo. “Destina un destino che
è il proprio destino”, una sottolineatura che potrebbe sembrare bizzarra, ma
che ha una sua scavatura nella formazione di Pirandello.
Pirandello è un
esistenzialista, è un decadente che ha superato il Decadentismo e ha
focalizzato la sua attenzione in una filosofia esistenzialista. Verga è un
positivista. Verga si definisce nel mostrare la realtà, nel mostrare l’ambiente
senza scavare nella coscienza del personaggio. Pirandello, invece, scava nel
labirinto del personaggio, nei meandri del personaggio, per tentare non di
recuperare (questo è il punto significativo), bensì di tentare di capire, di
avere una consapevolezza maggiore del suo legame tra personaggio e uomo. Verga,
al contrario, crea un legame tra “uomo e ambiente” e cerca di capire. Se
Pirandello non vuole capire, non cerca di capire, ma cerca di approfondire una
consapevolezza che è una consapevolezza esistenziale, Verga, appartenendo a
quella tradizione storicista, cerca di capire il senso della storia, della
fatalità. Più che destino, in Pirandello sembra emergere l’”avventura del
destino”, che è una cosa ben diversa. Ho sottolineato fortemente la “questione
del destino”, ma se noi dovessimo prendere come testimonianza i personaggi, ci
renderemmo immediatamente conto come ogni personaggio, pur marchiato dal
proprio destino, viva un’avventura, una propria avventura, che poi sarà
l’avventura dell’Io narrante. L’avventura può essere triste, malinconica,
ironica o drammatica, tragica e inquietante, ma l’avventura c’è.
In Verga manca il
concetto di destino perché c’è il “caso”, e manca anche questa avventura. E
neppure la realtà in Verga offre la possibilità di capire il filo
dell’avventura nei personaggi, perché i personaggi sono affidati al caso, ed
essendo affidati al caso, vengono restituiti alla storicità del reale. In
Pirandello la storicità del reale non esiste, esiste la “metafora del simbolo”.
Ecco, allora, la diversità dei due scrittori siciliani, una diversità che è una
diversità in cui è difficile poter accettare una comparazione, se non nella
diversità. La filosofia esistenziale di Pirandello è la filosofia tragica,
tragica nel senso umano, nel senso nicciano, nel senso del tragico ritorno.
Questo senso del ritorno, l’antico ritorno in Pirandello, si testimonia proprio
attraverso questo filo che collega la tragicità della sua terra, della sua
isola, con la tragicità dello scrittore- personaggio-Io.
In Verga la tragicità
iniziale cede il passo al dolore, il dolore che appartiene al reale storico
dell’ambiente, degli ambienti in cui vengono rappresentati i suoi scritti.
Pirandello e Verga
sono, appunto, i due modelli, non soltanto di una letteratura, ma di un modo di
concepire la letteratura, e nel modello di concezione di una letteratura, si
innescano due visioni da una parte filosofica, e dall’altra parte storica, anzi
storicistica. Sono del parere che la visione antropologica dei due diventi
necessaria nell’interpretazione complessiva di una storia della letteratura che
ha posto alcuni percorsi per capire il Novecento.
Entrambi, però, sono
figli dell’Ottocento. Verga e Pirandello, figli dell’Ottocento che si innescano
dentro le maglie del Novecento. Verga termina la propria esistenza intorno agli
anni Venti, Pirandello verso la metà degli anni Trenta. Tuttavia, entrambi
assorbono il romanticismo, e se in Verga il romanticismo diventa positivismo,
in Pirandello diventa esistenzialismo. È questa la chiave interpretativa
significativa. Ma chi lascerà un segno dominante nell’epoca e nell’età
contemporanea, Pirandello resta l’uomo tragico tout court, e resta
l’uomo tragico tout court perché ha saputo trasferire, pur non
perdendola mai, quella dimensione del tragico nei personaggi. Questa è una
entratura in quella antropologia che non diventa folclore, ma diventa
“percezione”. In Pirandello non c’è folclore, letto sul piano antropologico, ma
c’è la percezione e i personaggi vivono di questa percezione in una costante
quadratura in cui il tempo dell’esilio pirandelliano diventa il tempo del
distacco. Pirandello si distacca continuamente dalla pagina perché pensa di
trovare dentro la propria anima, dentro la propria coscienza, un destino.
Verga, invece, se si distacca dalla pagina, cerca la verità della storia.
Pirandello non cerca verità, cerca invece di filtrare quella maschera, o quello
specchio, che ha costantemente davanti e, avendolo davanti quello specchio, lo
porta dentro la propria anima.
Aspetti cruciali per
delineare una letteratura verista, “realista” come è stata definita dalla
critica (e lasciamo questa etichetta), ma io direi piuttosto una letteratura
che ha tentato di duplicare il reale raccontando il “reale” senza servirsi dei
simboli, senza lasciarsi contaminare dalle metafore nel caso di Verga. In
Pirandello, invece, c’è la griglia simbolica di tutto ciò che i personaggi
vivono e questa griglia simbolica si trasforma in archetipi, quindi prende il
sopravvento il simbolo, il mito, questa classicità di cui tutta la cultura
pirandelliana è infarcita, il mito greco, arabo, ovvero la simbologia greco
araba. Pirandello è più orientale, in altri termini. Verga, invece, è molto
radicato nella cultura europea, in quella cultura europea che rimane anche come
racconto in sé, come racconto di storia nella desacralizzazione del tragico per
concedere il sopravvento al “realismo del dolore”. In Pirandello c’è la
sacralizzazione del tragico, quindi sostanzialmente percorriamo due strade
completamente diverse sia nell’insistere, nell’osservare con lo sguardo
l’ambiente, gli ambienti, sia soprattutto nel captare le sensazioni che i
personaggi lasciano sulla scena e sulla pagina.
Sono due mondi che
nascono nella Sicilia, che nascono nel Mediterraneo, e sono due mondi
includenti sul piano antropologico, inclusivi sul piano etnografico, perché
entrambi non perdono il senso della memoria e, non perdendo il senso della
memoria, entrambi vivono radicati fortemente al tempo. Da una parte c’è il
tempo della storia e della geografia in Verga, dall’altra parte c’è il tempo
della metafora, c’è il tempo del tragico, il tempo dell’inquieto perenne,
dell’eterno ritorno in Pirandello. Questa è una letteratura che ci permette di
comprendere il passaggio tra Ottocento e Novecento e di entrare in quel
Novecento che detterà il male di vivere, quel “male di vivere” che è
stato dettato, appunto, da Luigi Pirandello.
*Capo Dipartimento Lettere Liceo Moscati di Grottaglie (Ta)