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Nell’Ulissismo della modernità le maschere di Pirandello non smettono di recitare
lunedì 9 gennaio 2017

di Pierfranco Bruni





Siamo assorbiti da troppe malinconie, quelle malinconie che permettono a uno scrittore di realizzare un’opera d’arte incompiuta, perché non esiste un’opera d’arte che non sia incompiuta. Su questa dimensione della incompiutezza molti scrittori hanno tracciato il loro esistere, hanno tracciato le loro vie verso l’anima, verso quella rappresentatività dell’esistenza che è metafora di una vera e propria metafisica.
Tra questi autori ho individuato chiaramente Luigi Pirandello perché rappresenta, e ha rappresentato, non solo una chiave di lettura, letteraria, ma una chiave di lettura in cui quella metafisica del profondo ha abitato un’impalcatura in cui il concetto di anima e il concetto di cuore costituiscono un viaggiare all’interno di quell’isola che, per Pirandello, diventa l’isola geografica, ma anche l’isola simbolica. “Geografica” perché Pirandello è nato in un’isola, la Sicilia, e dentro la Sicilia ha attraversato sia il caos, la sua terra le sue origini, sia il labirinto. “Simbolica” perché proprio dall’isola è partito per cercare il continente, ma non l’ha trovato. Ha trovato, invece, il viaggio, tante partenze e queste partenze alla fine lo hanno ricondotto sempre all’isola come realtà e come metafora.
Dal caos, in termini antropologici, è passato a vivere il labirinto. Il caos, si sa, sia sul piano antropologico, filosofico che linguistico, costituisce una confusione enorme, dove non c’è il rischio che non si possa trovare una via d’uscita, in cui tutto si intreccia tutto si confonde, dove tutto può avere un “non senso”, perché nel caos non c’è un’Arianna che possa portare “oltre”, come non c’è una Beatrice che possa condurre verso la luce; mentre nei labirinti c’è metaforicamente, sul piano mitico degli archetipi, Arianna che cerca di condurre sempre verso il focolare domestico, verso le radici. Pirandello ha attraversato sia l’uno che l’altro.
Inizialmente è stato nel caos, (Kaos), ma dopo il suo viaggio, che lo ha portato anche a Bonn, in diverse geografie dei continenti italiani europei mediterranei, è ritornato nella sua Sicilia. Vi sono caratteristiche in Pirandello che si differenziano da Verga, si differenziano da Giuseppe Tomasi di Lampedusa perché per Pirandello il concetto dell’isola è diventato il concetto del nostos, del ritorno. In Verga il concetto dell’isola era il concetto dell’uscir fuori dall’isola e di cercare, in termini di provvidenza, una “non isola” dove poter abitare per sempre. In Tomasi di Lampedusa l’sola è l’eterno infinito. Pirandello non ha mai cercato un’abitazione per sempre che non fosse la sua isola.



Ha vissuto la sospensione del tempo, la concezione del tempo sospeso, ecco perché l’enigmaticità di Pirandello (lo si legge dal “Fu Mattia Pascal” e da “Uno nessuno centomila”) diventa il superamento della verità, il vivere nel dubbio e questo significa aver constatato che la verità non è mai vera, aver constatato che dentro la verità ci sono diverse strade che non danno la salvezza. La salvezza te la può dare soltanto la consapevolezza di essere costantemente nel dubbio e l’isola, la “metafora dell’isola”, è il dubbio. Ecco perché ha sempre vissuto con questo “ulissismo” dentro l’anima, e vivere con il perenne ulissismo dentro l’anima significa vivere, non solo di ambiguità esistenziali, ma soprattutto significa vivere di costanti malinconie che diventano nostalgie.
Il suo silenzio, il suo essere taciturno, e il far parlare i personaggi con la certezza della malinconia, lo ha reso dolorante, evasivo e a volte disperato. Si tende a non usare la parola “disperazione” in Pirandello, non la usiamo per timore; Kierkegaard direbbe “per tremore” o per una profonda angoscia che attanaglia gli uomini, ma Pirandello ha vissuto la sua disperazione e l’ha vissuta trasformandola in una misura della follia, nella misura della follia.”Il berretto a sonagli” in fondo è proprio questo. “Pensaci Gacomino” è questa dimensione dell’uccisione della verità e dell’uccisione anche della possibilità di capire la cognizione del dolore.
In “Così è se vi pare” non c’è la cognizione del dolore, ovvero la conoscenza del dolore. Il motivo perché non c’è in Pirandello la conoscenza del dolore è perché lui taglia la conoscenza, il dolore è infinito tragico. La sua presenza nella letteratura e nella vita è oltre il dolore stesso, è oltre l’angoscia, oltre la tristezza, o meglio sarebbe dire, è “altro” rispetto al dolore, è “altro” rispetto la tristezza, l’angoscia. Ecco perché l’inquietante solitudine, o l’inquietudine senso del taciturno che si vive in Pirandello, lo porta poi all’evanescenza del dolore e a farlo scendere in quella disperazione che era molto cara a Cesare Pavese quando lo stesso Pavese parlava di gorgo muto e di verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Pirandello è una sostanzialità letteraria che incorpora non solo una psicologia del linguaggio tutto particolare (sembra far parlare i personaggi ma è lui che parla, sembra dare un nome ai personaggi, sembra dare un senso alla storia come nei “Vecchie i giovani”), ma in fondo il Pirandello che resta è il Pirandello che non si trasforma mai, che nonostante le maschere nude o le maschere doppie (il doppio nello specchio, Ulisse nello specchio) si avverte sempre uomo che ha il suo destino, che incamera il suo destino nel viaggio.
Il Dio possibile o il Dio impossibile di Pirandello, è la contestualizzazione di un dato antropologico forte. Pirandello non arriva a porre al centro Dio proprio sul piano antropologico, perché egli crede fortemente a un’antropologia degli uomini che vivono il personaggio di sé ponendo al centro l’anthropos, ma rendendosi conto che l’uomo non porta la salvezza, Pirandello cerca in modo indissolubile, a volte, una nuova forma, un nuovo modello di comunicazione con se stesso, con il doppio di sé, con l’altro Io. Cerca questa comunicazione dentro un immaginario che è l’immaginario della solitudine dentro la quale si specchiano sia il caos, sia il labirinto e si ritorna al concetto iniziale, alle radici. In un certo qual modo Pirandello lo si trova anche in molta parte di Corrado Alvaro, in quel Corrado Alvaro che pubblica un libro dal titolo “L’uomo nel labirinto”, che pubblica “Memorie del mondo sommerso”, che pubblica i racconti di “Mastrangelina”.
Corrado Alvaro cattura in Pirandello questo concetto del labirinto e lo porta “oltre”, perché, come in Pirandello, il viaggio diventa “il viaggio oltre”, in Alvaro il viaggio diventa il viaggio lasciato dentro il paese natio e vissuto anche come ritorno. A differenza di Pirandello, Alvaro non farà ritorno. Il viaggio di Alvaro è un viaggio a metà e resta un viaggio a metà, resta uomo nel labirinto dal quale non esce, mentre Pirandello riesce a uscirne perché supera il concetto di morte nel mito. Alvaro si pone il concetto di morte, ma soltanto attraverso il concetto di tempo e rimane nella memoria del mondo sommerso.
In Pirandello, invece, c’è la presenza costante della madre soprattutto nelle riflessioni che lo portano al legame con la disperazione e la riflessione con la madre è così potente che pone immediatamente a confronto l’Io del personaggio Pirandello con l’Io della madre morta e quindi con l’Io della morte.
È un’antropologia della filosofia che si vive in Pirandello, la forza di quella malattia mortale che è la malinconia, come in Kierkegaard, si avverte necessariamente dentro questo aspetto pirandelliano. Valutando queste riflessioni, il concetto di uomo solo in Pirandello è sì il concetto della solitudine, ma non è il concetto della solitudine in senso generale, della solitudine dell’”uomo solo” Pirandello. Ecco perché l’isola diventa l’esilio per Pirandello ed è un esilio volontario, ed è un esilio dell’anima, è un esilio in cui il concetto forte di anima non diventerà mai come un “fuoco gelido”, direbbe Platone, ma resterà come la necessità di recuperare ciò che lui comprende che sia perduto. Il dialogo con la madre è sostanzialmente questo recuperare la madre dicendo alla madre perché sei morta senza di me? Come hai fatto a morire senza di me?
Si ritorna a una dimensione ancestrale molto cara ad Alberto Bevilacqua, il quale recitava la sua malinconia per la madre dicendo “smetti di morire”. Anche Pirandello dirà alla madre”smetti di morire”, ma dirà anche a se stesso “smetti di vivere con questa malinconia” e non ci riuscirà nonostante il suo testo sull’umorismo. L’umorismo ha anche una maschera tragica e questo è segno emblematico di una dimensione che non riesce e sorridere sull’onirico, non riesce a catturare il sogno, ma il sogno di un’altra dimensione del senso tragico. Pirandello, uomo inquieto, uomo delle enigmaticità, l’uomo che ha saputo formare e consolidare quella iniziale tristezza trasformandola poi involontariamente in disperazione.
Si lega fortemente a Marta Abba per disperazione. Anche questo è un aspetto significativo della sua vita, il suo rapporto con le donne è un rapporto alla ricerca della madre. Tutti i rapporti con le donne, per Pirandello sono un rapporto che vanno alla ricerca della madre. Questa non è una novità per gli uomini, non è un fatto originale. Tutti noi andiamo alla ricerca delle nostre radici, in modo particolare, delle nostre madri, ma in Pirandello questo aspetto diventa forte, pesante, tanto che egli ci lascia con uno scritto dal titolo “I giganti della montagna”.
Che cosa faranno questi giganti della montagna? Riusciranno a superare la montagna? La montagna riuscirà ad essere superata da questi giganti? Questo è il punto interrogativo, ma l’opera rimane incompiuta e Pirandello che è un grande, forse il massimo scrittore del ‘900 insieme a D’Annunzio, troverà la sua “uscita di sicurezza”, direbbe Silone, non nella verità ma la troverà nella memoria, la troverà nel ricordo, nella nostalgia.
Pirandello non riesce a fare letteratura senza superare la nostalgia e questo è un concetto molto forte, esteticamente elevato, le cui derivazioni provengono sì dalla cultura classica greca, pensando alla visione del nostos, ma provengono, in modo particolare, da quella cultura mediterranea dove tutto si ritrova e tutto ha un senso.
In fondo, Pirandello recita l’ulissismo della modernità. Nell’ulissismo della modernità le maschere recitano la tragedia.





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