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Don Giussani, Pavese e il mio viaggio
giovedì 15 settembre 2016

di Pierfranco Bruni


Bruni - Pavese

L’attesa e la speranza hanno come punto di incontro, e quindi, come punto di riferimento, il senso del religioso. Inquieta l’attesa, ma è una dimensione spirituale che avvolge le nostre coscienze. Le coscienze del linguaggio. Il linguaggio dell’essere e del non essere. Il linguaggio che è spazialità di tempo dentro una visione che va chiaramente oltre il virtuale.

Credo che la letteratura possa offrire una chiave di lettura importante e particolare del senso e dell’orizzonte che si vivono nella “stazione” di una spiritualità, che ha voce e destino. Siamo immensi nella letteratura. Siamo partecipanti del dolore che traccia un viaggio indelebile che è fatto dall’uomo e dalla persona.

La letteratura parla con la parola della religiosità. Scriveva don Luigi Giussani: “Il senso religioso è la capacità che la ragione ha di esprimere la propria natura profonda nell’interrogativo ultimo, è il locus della coscienza che l’uomo ha dell’esistenza”.

Lo sguardo dell’uomo è lo sguardo, appunto, dell’attesa che, vivendola senza pazienza, potrebbe trasformarsi in disperante solitudine. Due concetti forti: la solitudine e la disperazione.

La ricerca di Dio. La memoria di Cristo. Vivono la letteratura nella letteratura. Don Giussani: “La forma quotidiana della decisione per l’esistenza è il ricordo del destino che ogni cosa ha, che è uno solo, il mistero di Dio, è il ricordo che questo mistero è diventato un uomo. Perciò, la forma quotidiana della decisione per l’esistenza è vivere la memoria di Cristo”.

Lo scavo della (nella) letteratura che trova attraversamenti su queste sponde porta direttamente a Cesare Pavese. Quel Pavese che ha vissuto e interiorizzato un dostoeschiano modello dell’inquieto esistere, e che non ha mai dato una ragione di senso alla morte sentita come attrazione della fine.


Don Giussani - Bruni

Quel Pavese, in modo particolare, che ha chiesto, sino agli ultimi istanti di vita, di superare la solitudine in una parola di consolazione e di pazienza affinché potesse giungere un barlume di luce, di Grazia, di ancoraggi.

Pavese: “Passavo la sera seduto davanti allo specchio per tenermi compagnia”.

Don Luigi Giussani stabilisce proprio con Pavese un colloquiare e dice che è mancato in Pavese ciò che potesse colmare lo spazio inevitabile tra l’attesa e la pazienza. Quando questo spazio comincia a creare una strada nella vita e negli scritti di Pavese, la luce è diventata molto fievole e quella fede che lo avrebbe potuto salvare lo trova già disperso. Disperso e non smarrito. Disperso in quel gorgo muto che è l’inevitabile nulla. Ma Pavese portava nella sua parola e nel suo sguardo un senso religioso che diventa incisivamente pietas.

Nel venir meno l’appiglio al religioso subentra l’abisso. O meglio non raggiungere il filo del sacro il vuoto si dichiara. E nell’abisso è scivolato pur tendendo le mani verso l’attrazione nei confronti della salvezza. In quale significato di non senso è precipitato Pavese? Eppure le sue ultime parole hanno un versamento che va oltre il nulla, e cercano di concentrarsi in un monito di ricerca di speranza.

Ho sempre cercato di individuare, nei miei scritti su Pavese, questo bisogno di speranza o la necessità della dissolvenza del nulla per aggrapparsi alla speranza che si sottolinea in molti passaggi dei suoi romanzi. Pavese, ho avuto modo di affermarlo, è sempre al limite della speranza – sacralità e poi giungono le distrazioni, le infinite distrazioni.

Don Giussani parla infatti di un venir meno di quella esigenza che è “la totalità dello sguardo dell’umana coscienza”. Anche nel religioso linguaggio dello scrittore ci sono delle opzioni tragiche. Ma ci sono opzioni religiose nel linguaggio e nell’essere tragico dello scrittore?

Pavese viveva la ricerca di Dio ma è andato oltre. Ecco: “La massima sventura è la solitudine; tant'è vero che il supremo conforto - la religione - consiste nel trovare una compagnia che non falla, Dio. La preghiera è lo sfogo come con un amico”.

In Pavese i due estremi di queste domande si sono scontrati creando un conflitto estetico ed esistenziale. Infatti, l’inquieto in Leopardi, don Giussani medita su ciò, non giunge a toccare il “gorgo muto” perché in Leopardi il senso del religioso non è così contrastante come nella vita di Pavese.

Tanto contrastante da diventare un cortocircuito tra destino e profezia. Così è stato il paesaggio trasgressivo di Pavese.

Don Giussani: “L’estremo lembo dell’audacia è amare umilmente se stessi”.

Il destino e la profezia. Nei suoi romanzi e nelle sue poesie ultime la consolazione giungeva sempre come solitudine. La solitudine era consolazione. Pavese si è posto le domande care a don Giussani: “… per che cosa vale la pena che io viva? Qual è il significato della realtà? Che senso ha l’esistenza?”.

Ha risposto a tali suoi interrogativi il Pavese sia del romanzo “La casa in collina” (religiosa attrazione verso il sacro) sia, soprattutto, il Pavese di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” (penitente accoglienza della morte – fine).

I tuoi occhi? Quegli occhi che ha sempre cercato e che non ha trovato o non ha avuto la pazienza di aspettare quegli Occhi. Il rischio della pazienza consiste nel non saper raccogliere l’attesa nella speranza. Forse è qui che bisognerebbe scavare per dare un senso all’uomo e allo scrittore Cesare Pavese.

Oltre il mito e molto più vicini al sacro. Un viaggio che resta nei solchi del destino – memoria.


Il Pavese di Pierfranco Bruni


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