Angelo Branduardi, la musica la poesia, da Dante al guerriero errante
venerdì 22 luglio 2016
di Pierfranco Bruni
L’infinitudine non conosce parole urlate, voci gridate, linguaggi disorientati. Conosce la pazienza della parola cantata, del suono che ha un vocìo piano, di un linguaggio che ha l’esistenza dell’anima. E il pensiero, quello forte, diventa come un volo di farfalla tra un silenzio taciuto e un silenzio ascoltato.
È qui che la poesia diventa preghiera nel gioco di un cerchio, intorno al quale si inginocchiano il vocabolario delle lingue e le essenze che mitigano i cuori. Il canto è una preghiera che attraversa i secoli e le civiltà, le terre e i mari, il divino e il magico. Sia il divino che il magico sono Illuminazione e Contemplazione. L’Oriente mai staccatosi dall’Occidente. I mari che sono incontro con le terre. Gli orizzonti che hanno confini di albe.
Io ascolto Angelo Branduardi nella pienezza del suo viaggio e mi sembra di andare lontano tra le lontananze e le vicinanze, come un guerriero errante che custodisce la malinconia e non la spada, l’amore e non l’arco, la saggezza e non la pietra. Ma non è soltanto nel suo cercare il cercatore della misericordia, il Santo di Assisi, o nel suo cantico del Paradiso di un Dante stellare, che non conta le stelle perché può bastarne una per diventare faro, o nel suo incontrare Catullo e Saffo, o nel suo splendore con l’impatto tra Yeats e Michael Ende che Branduardi segna e disegna una sua precisa e profonda marcatura metafisica. Piuttosto è nella complessità della griglia simbolica dalla quale emergono gli archetipi che accompagneranno tutto il suo vissuto musicale e la sua spaziatura poetica.
La poesia come spazio dentro il tempo, che pone, come reciproca visione onirica e letteraria, la santità nell’umanesimo sperimentale dell’uomo e l’alchimia nella tradizione dei segni etnici e antropologici.
Branduardi è il musicista e il poeta che sperimenta la musica dentro la parola e la parola come interiorizzazione della nota musicale. La sua metafora fondamentale resta l’intreccio tra il futuro e l’antico. Un’archeologia dei sensi e di un mosaico mitico – ancestrale che fissa gli orizzonti della parola nel viaggio di una iniziazione che è quella dell’eterno e del sublime, ma anche del finito e dell’infinito. Una favola di un c’era una volta che si proietta sia nel forse c’era una volta ma anche in un ci sarà nel tempo che vivremo…
Una poetica dei linguaggi (e non cito alcun testo per pura scelta di metodo) che scompaginano, i linguaggi, sia la poesia che la musica stessa, perché Branduardi si serve di un tratteggiare la parola che non ha bisogno di nessuna retorica, bensì si sposta dentro la mosaicizzazione delle costanti metafore, che diventano un genere letterario vero e proprio nel senso che si dichiarano come confessione in uno scavo di sentimenti e di civiltà tra le ombre della morte: “Sull’acqua del ruscello/forse tu troppo ti sei chinato/tu chiami la tua ombra,/ma lei non ritornerà”.
Qui si innestano le “pergamene” etniche le quali sono la trasparenza di un mondo che si specchia nello sguardo di chi non guarda ma sente. Anche per questo il suo legare il “Cantico delle Creature” al “Paradiso” di Dante (Canto XI) è un trasportare oltre non solo una lingua (si pensi al modello Occitano e alla lingua d’Oc ben posizionata nel testo), ma anche un percepire i testimoni di culture e di ascolto del silenzio tra il misticismo persiano e l’estetica araba in un contesto dialogante tra un poeta come Esenin e Giorgio Faletti, che ha come centro la magia dello stregone.
E il tutto nella narratività in cui si racconta il mondo dolce e il mondo disperato come nella vicenda di Abelardo ed Eloisa, la quale è stata una pagina motivante in un Branduardi che ha come ispirazione non solo la leggenda ma anche la conoscenza in un pensiero articolato e con più espressione, che toccherà persino il canto di Keats.
Il Branduardi maestro nella musica è il Branduardi che ha assorbito e snodato il rapporto tra poesia e canto per annodarlo definitivamente ad un orizzonte di senso.
A quel senso e a quell’orizzonte che conducono sempre al principio, ovvero alla favola bella di un tempo mai scomparso ma addormentato, per poter ascoltare: “E tu bel bimbo, bimbo mio dolce,/dimmi cosa vuoi che io ti canti?/Cantami dei numeri la serie/sino a che io oggi non la impari.//Unica è la morte,/niente oltre, niente più”.
Continuo ad ascoltare Branduardi nelle notti in cui la luna ha distanze di geografie d’anima e di erranze, per solcare, sempre di più, il tempo che ho vissuto con il tempo rimasto dentro di me come immaginario cammino.
Resta il cerchio di fuoco di un accampamento abitato da personaggi che danzano: da Dante al guerriero errante.