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È scomparso Yves Bonnefoy.
Un linguaggio scavato una poesia dell’essere

sabato 9 luglio 2016


di Pierfranco Bruni



È morto Yves Bonnefoy. Un poeta, un critico delle arti. Un traduttore delle relazioni tra linguaggi e forme. Nella sua poesia il sentire il tempo come scavo e poesia dell’essere. Si cammina con lui nella parola. La poesia come esperienza dell’anima, come vissuto di esistenze, come fuoco e metafora di un viaggio inesorabile e insondabile, ma anche come costante di una ricerca metafisica che coinvolge il taciuto e l’ombra della parola.



C’è una caratteristica fondamentale in tutta l’opera di Yves Bonnefoy che è l’intrecciare l’immaginazione con le parole, ovvero con il linguaggio.
Nella sua poesia ci sono le “eternità del fuoco”. Ma tale metafora è adottabile nella lettura dell’opera complessiva di Bonnefoy, nella quale sono rintracciabili i segni di una estrema consolazione – resurrezione. In fondo il suo approcciarsi iniziale alla letteratura, poi sviluppatasi in quel suo intrecciare la poesia – linguaggio alla critica – pensiero, ha avuto proprio come elemento di fondo il risorgere.
Far risorgere con la consolazione la parola dandole il linguaggio della resurrezione. Uso questi concetti non in termini necessariamente laici ma effettivamente cerco di dare al tutto un immaginario sacrale. Perché la poesia, la parola, il linguaggio sono le estreme coordinazioni di una sacralità.
La poesia ha il suo valore sacro ed è sacro il linguaggio in quanto è sempre espressione dell’anima. Così in questi splendidi versi di una poesia dal titolo, appunto, “Eternità del fuoco”:
“Fenice rivolta al fuoco, che è destino/E chiaro paese raggiante le ombre,/Sono, gli dice, colei che tu attendi,/Vengo a smarrirmi nella tua terra grave”.
La poesia ha una sua natura e questa sua natura ha un involucro le cui foglie sono malinconia e piacere. Può spegnersi.
Sogno – pensiero è un legame forte che diventa una trama di un viaggio immaginario e dentro il tempo della memoria. In suo articolo apparso su “Il Sole 24 Ore” (1999) ebbe a scrivere riferendosi al quadro della poesia del Novecento, ma non necessariamente del Novecento: “L’immaginazione è la nostra facoltà di rappresentare delle immagini, in altre parole, delle forme o delle figure la cui esistenza è puramente mentale. Ma è anche l’atto durante il quale ci avvaliamo di questa facoltà immaginativa per sostituire a una situazione reale, quella in cui ci troviamo al momento, una situazione diversa, reale solo nella nostra mente. A questo fine facciamo appello alle nostre capacità di ideazione, anticipazione e memoria e se ci imponiamo questo sforzo è perché spesso il risultato di questa sostituzione ci fa piacere. Essa ci consente di realizzare, sia pure solo in forma di sogno, e spesso senza alcuna conseguenza diretta sulla nostra esistenza reale, un desiderio che non siamo in grado di soddisfare nella situazione in cui ci troviamo”.
La poesia come una “forma di sogno”. Ma è sogno. Perché il sogno vince sulla realtà e la poesia non ha bisogno del reale in quanto Bonnefoy è convinto che “il mondo immaginato ravviva il nostro desiderio di essere”. In lui insiste una caratteristica che forse si potrebbe definire meta-evangelica soprattutto quando parla della salvezza.
La salvezza è possibile toccarla dopo che tutto è distrutto. La salvezza nasce dalla distruzione: “E’ vero che occorreva distruggere e distruggere e distruggere,/E’ vero che la salvezza era a quel prezzo” (da “L’imperfezione è la natura”). Dentro questo labirinto di pensiero religioso – sacro, Bonnefoy pone l’importanza dell’imperfezione. L’opera d’arte non solo la si deve leggere e comprendere nel suo senso incompiuto, ma anche nella sua dimensione – valore di imperfezione. Come gli uomini che sono l’immagine dell’imperfezione. E in questo concetto la sua religiosità del linguaggio si fa sacralità della parola.
Ancora nella poesia appena citata il contrasto/conflitto/risoluzione si tematizza su un tale versante: “Amare la perfezione in quanto soglia,/Ma conosciuta negarla, dimenticarla morta,//L’imperfezione è la cima”.
Qui sta forse il senso del suo camminare tra la vita e le parole. La sua poesia è in questo immaginario di pensieri che diventano scoglio di esistenze, già dicevo, ma anche in un fuoco che “squarcia il giorno” nel giorno che rincorre l’alba e l’alba è sempre rincorsa per essere vissuta come luce. Ed è la lingua che si interiorizza come senso. Il senso dell’esistere.
La lingua occorre considerarla, ci dice Bonnefoy, come “un materiale sottomesso a una operazione totalmente e radicalmente indenne dalla personalità dell’operatore. Quindi resta un’operazione sulla Forma, l’impostazione infine di una forma al flusso di parole che di per sé hanno perso un senso” (così scriveva sul “Corriere della Sera”, 22 settembre 2001). È la metafora nella metafisica del vivere il peso e la profondità di una parola che è riassume la complicità dell’essere, del pensiero e della forma.
Nella sua poesia, ma si potrebbe dire nella sua scrittura e nel suo scrivere, il silenzio non è una parola taciuta, ma diventa un linguaggio del vivere: “… come nascere impaziente/Sconvolge il suolo,/Tu neghi con gli occhi/Il peso delle argille stellari”.
Dunque, una scrittura scavata ma anche una scrittura dell’essere. Non solo dell’essere stato, e quindi un coinvolgere il tempo come immaginario perso nell’immaginario di un tempo conquistato, ma soprattutto della salvezza vissuta. In questo concetto della salvezza vissuta si vive, in Bonnefoy, la salvezza conquistata e da conquistare tempo dopo tempo. Un poeta nella scrittura del pensiero.
Yves Bonnefoy era nato a Tours il 24 giugno del 1923. E’ morto a Parigi l’1 luglio del 2016.




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