Il canto popolare è l’antropologia di una conoscenza di una temperie. Resta
nell’immaginario. Si fa memoria e si fissa nel tempo. Antropologia come
antropos. Tra civiltà e popoli. Tra il canto popolare e i racconti dei
vincitori e dei vinti. Anche negli studi di Giuseppe Pitré (Palermo, 22 dicembre 1841 – Palermo, 10 aprile
1916) si avverte la lezione di lavorare costantemente sul campo. Con il
materiale bisogna raccontare la storia di un popolo e soprattutto con il canto
popolare.
I canti popolari della Resistenza e del Risorgimento sono parte
integrante di un bene demoetnoantropologico. Pongono in essere un modello di
cultura popolare che rispecchia la storia all’interno di un vissuto, di una
temperie e di un contesto. Sono parte integrante della storia dei “vincitori”
andando a costituire un patrimonio di ciò che la storia e la cultura hanno
rappresentato a partire dal 1860 fino al periodo del post-fascismo (1945).
I canti risorgimentali, beni etnoantropologici appartenenti alla cultura
popolare, possiedono una caratteristica che varia in una articolazione ben
definita da territorio a territorio e da regione a regione.
I canti del brigantaggio, quelli borbonici e del Regno di Napoli
rientrano nella misura del “canto popolare demo-etnoantropologico”, sebbene
storicamente ci troviamo all’interno di una visione in cui il tempo viene
vissuto come tempo di una memoria passata che riascoltiamo attraverso le
attestazioni di parole e musicalità.
Così i canti della Repubblica Sociale di Salò, i quali
costituiscono un patrimonio esemplare di una linguistica associata alla
antropologia del costume e della storia in una temperie molto complessa e
difficile.
I
canti della Repubblica Sociale di Salò sono parte integrante di un patrimonio
culturale di una Nazione. Andrebbero meglio studiati proprio dal punto di vista
antropologico e non meramente politico. Il canto popolare è parte integrante
della espressione di una comunità e sarebbe importante verificare il legame tra
canto popolare di Salò e modello antropologico.
Un
legame sul quale sto lavorando con molta attenzione e interesse attraverso uno
studio che riguarda: “E’ partita una tradotta. Salò e il canto popolare
repubblichino” partendo da alcuni versi che echeggiano:
“E’
partita una tradotta,
tutta piena di diciott'anni,
visi freschi, cuori spaccati
dalle granate dell'allegria.
Hanno preso la via del mare
questi giovani in grigioverde
col prurito nelle mani
e l'amore nei tascapani” (da “E’ partita una tradotta”, un canto Inno del
reggimento GG.FF. , giovani fascisti che combatterono a Bir-el-Gobi)
.
La storia non conosce parentesi, affermava lo storico Renzo De
Felice. La storia non può avere parentesi se si vuole comprendere fino in fondo
l’identità di una Nazione, parimenti è necessario cercare di studiare, in modo
attento, i canti del prefascismo e del Fascismo al di là delle ideologie.
Molti canti del Fascismo, come “Giovinezza” e così via, sono propriamente
prefascisti. Il linguaggio stesso creato da D’Annunzio è un linguaggio
pre-nazionalista.
Non si può sostenere la tesi di un D’Annunzio Fascista e riparlare del più
grande scrittore del Novecento uno scrittore da Indice.
L’intera opera di D’Annunzio nasce prima del Fascismo. Come si può additare a
D’Annunzio l’essere stato Fascista? Si potrebbe addirittura capovolgere il
discorso, ovvero che il Fascismo recupera il linguaggio dannunziano.
I vari concetti espressi da D’Annunzio nelle sue canzoni, o nei motti, sono
parte integrante di un patrimonio nazionale perché D’Annunzio resta il
punto di riferimento cruciale nel passaggio epocale, non tra due forme
ideologiche, bensì tra due epoche.
Ecco perché è necessario approfondire questo aspetto, del resto la canzone
“Bella ciao” non nasce certo con la lotta partigiana, ma è pregressa,
recuperata nell’ambito di un preciso momento storico.
Ma
hanno una loro autonomia come il canto che dice:
“Fanciulle
della via
sorridete ogni or
la terza compagnia
per voi canta in cor…” (da “La terza compagnia”).
Oppure
quella più conosciuta che ha un canto e un contro canto da uomini e donne:
“Le
donne non ci vogliono più bene
perché portiamo la camicia nera.
Hanno detto che siamo da catene,
hanno detto che siamo da galera!
L'amore coi fascisti non conviene…”.
Rispondono
le donne:
“Le
donne non vi vogliono più bene
perché portate la camicia nera.
Non vi crucciate: cosa da galera
Fu giudicato Cristo, e da catene!”
(da “Le donne non ci vogliono più bene”).
Oppure
il canto dei Legionari, conosciutissimo: “Faccetta nera…”.
Desidero ragionare in termini
prettamente culturali e antropologici. Percorrendo un discorso etno-liguistico
ci si rende conto come le ideologie abbiano poco a che vedere con l’invenzione
di un canto popolare.
É l’ideologia, a volte, ad impossessarsi del canto popolare, è questo il dato
di fondo.
Il brigantaggio non diventa ideologia in sé attraverso il canto dei briganti, attraverso
la canzone di Ninco Nanco. È la conseguenza di un processo e di un percorso
interattivo al cospetto di queste visioni.
Dobbiamo avere la capacità e l’intelligenza di proteggere questo patrimonio.
Salvaguardare il patrimonio identitario della “canzone popolare” significa
smarcare le forme politiche di vinti e vincitori, creando così un unicum
con le distinzioni di una cultura prettamente popolare che appartiene a
tutti.
I canti popolari, entrando nella storia, esercitano una funzione di conoscenza
e, allo stesso tempo, psicologica ed esistenziale.
L’antropologia ha matrici nella storia. Attraverso la capacità di comprendere
la funzione che i popoli hanno avuto abbiamo la possibilità di lasciare un
segno tangibile alle nuove generazioni, che dovranno confrontarsi con questo
percorso, non soltanto sul piano antropologico, ma anche sul piano culturale
tout court, in senso generale, e storico.
Il canto risorgimentale, quello dei briganti, della Resistenza, quello
prefascista che diviene poi icona del Fascismo e i canti della Repubblica di
Salò che vengono recuperati dal prefascismo hanno la medesima funzione?
Ritengo di sì sul piano antropologico.
Credo
sia necessario dare una funzione prioritaria a queste chiavi di lettura.
Un simile discorso può essere applicato alle lettere dal carcere, sia da una
parte che dall’altra, aventi funzioni caratterizzanti di un tempo e di
una storia.
Per il loro carattere di testimonianza vanno inserite all’interno di un
contesto prettamente culturale, di analisi e interpretazione antropologica.
L’antropologia non deve avere ideologia
né appartenenze, bensì contenuti che si recuperano mediante questa visione di
identità all’interno della tradizione.
La forma d’identità nazionale è fatta di queste componenti che sono storiche e
che appartengono a un vissuto di popoli, di uomini e di appartenenze.
La centralità delle antropologie sta nella conoscenze dei popoli.