Fulvio Tomizza e le radici istriane nel mio pensiero e
nella mia vita.
A 80 anni dalla sua nascita
di Pierfranco Bruni
Ci sono etnie che continuano ad essere attraversate dalle indifferenze”. A
volte dimenticate. Soltanto il legame tra la letteratura e l’antropologia può
scavare in queste memorie. La cultura istriana è una etnia, ma è anche una
questione politica. Ho tanto letto Tomizza. Con me ha viaggiato per lunghe
stagione La miglior vita. Negli anni dell’università era diventato il
mio punto di riferimento. Ora è la mia meditazione costante con quella sua
letteratura che non lascia mai la vita. Ed è entrata nei miei studi ma anche
nelle mie pause. Con la sua scrittura, sin da anni antichi, ho sottolineato che
la letteratura deve costantemente confrontarsi con i fenomeni etno –linguistici
che sono alla base della lettura dei territori e delle lingue.
Perché
Fulvio Tomizza oggi è da rileggere anche in una visione antropologica ed etno
-letteraria? Ironia e utopia si intrecciano e vengono intercalate da
altrettanto incroci di processi esistenziali e processi culturali. Tomizza
resta pur sempre uno scrittore di frontiera. Un itinerario narrativo il cui
tema centrale è rappresentato dal recupero delle memorie che da memorie sommerse
diventano tempo riconciliato. Il viaggio è dentro la diaspora che vivono i
personaggi.
Fulvio Tomizza in un racconto del suo ultimo libro, il cui tema centrale, come
in tutti i suoi romanzi, resta l’affermazione di una identità e il recupero
della profondità delle origini sottolinea con delicatezza ma anche con molta
incisività: “… verso quali contrade mi spingevo lungo le vaghe piste della
memoria…?”. Un interrogativo che non chiede una risposta ma sottoscrive una
valenza metafisica. E sì, perché per Tomizza il senso delle origini, il senso
dell’appartenenza divisa o tagliata, il senso dello sradicamento – radicamento
assume una funzione problematica ma certamente metafisica.
I racconti pubblicati negli ultimi anni di vita, come testamento da vivo, sono
una forte dichiarazione di identità che si esprime proprio attraverso la
letteratura. Mi riferisco a Nel chiaro della notte. Tomizza nato
nel 1935 nel villaggio istriano di Materada ma la sua patria di adozione
diventa Trieste. Muore il 21 maggio del 1999. Ha vissuto e sofferto tutto il dramma istriano. L’Istria come modello storico e linguistico ma
anche come dimensione esistenziale. La diaspora, la divisione, le ferite di un
dramma che è storico ma è soprattutto esistenziale. Questo dolore è tutto
dentro i suoi romanzi e i suoi racconti.
E’ questa la fotografia più efficace che sanguina tra gli scritti di Tomizza
mentre racconta le sue storie: “… ora che finalmente abbiamo anche noi il
legittimo e sacro proposito di recingere di una siepe e chiudere con un
cancello questo giardino che è nostro innanzi a Dio e innanzi agli uomini, ora
ci si chiama ladri e ci si contende l’attuazione del nostro sogno col pretesto
che nelle nostre aiuole ci sono troppi fiori di altra terra! … Che colpa ne abbiamo?
Dobbiamo forse distruggerli, quei fiori, per conservare il giardino?” (da Franziska).
Una metafora che vale un processo onirico come espressione letteraria e come
motivazione umana. Ma anche in La visitatrice e in La casa col
mandorlo
Il paese, i villaggi, le case sono le ombre che camminano nel suo essere. Così
le campagne che si fanno rivelazione di sogno. Nel racconto “Riso antico” ci
sono delle immagini emblematiche che danno luce e calore alla letteratura oltre
che a un significato esistenziale che la parola stessa condensa. Sembra
addirittura una proiezione. Un bel pezzo di prosa in cui sembra venir fuori una
descrittività ma in fondo è la memoria che assurge a vera letteratura.
Si legge: “il villaggio di case in pietra nel quale penetrai poteva appartenere
alla mia provincia come all’altra: gli stessi muri rossastri, le stesse
stradine senza nome, identici gli alberi imbiancati di polvere, uno stagno nel
mezzo. Ma la chiesa e qualche altro edificio erano di costruzione remota e di
qualche pregio; davano un nome inequivocabile a quel paese vagatamente noto ma
mai visitato”.
Tomizza ha nel cuore sempre il suo paese. Materada. Nonostante i conflitti in
quella Regione, nonostante le lotte e le mai non cessate rivendicazioni lo
scrittore è, questa volta sì, il descrittore dei sentimenti delle coscienze e
del popolo. Lo scrittore, in fondo, si sente l’interprete della consapevolezza
di un popolo che incarna un modo di essere di un tempo e di una cultura.
E in “In visita ai miei luoghi” c’è un’immagine che richiama un passato e
questo passato è dentro il quotidiano vivere dello scrittore. Appunto così: “E’
l’eterno tempo di un’Istria povera, lontana, dove la vita sonnecchia perfino
nelle case e se qualcuno si azzarda a mettersi su una strada è per portare il
grano al mulino; fradicio quanto i buoi o l’asino. All’improvviso mi vien da
ricordare che è domenica; se affrettiamo la marcia potremmo perlomeno dare
l’opportunità all’amica tutta italiana di assistere alla messa bilingue di Materada”.
La lingua diventa dunque fondamentale.
Materada è appunto il suo primo romanzo. Un romanzo la cui dimensione
storica viene completamente attraversata da una luce onirica che ci riporta in
un viaggio nella memoria ad un paese. Un paese come luogo dell’anima. Un paese
che è la metafora di un gioco infinito tra l’infanzia e la maturità. E tra
l’infanzia e la maturità c’è questa coscienza del paese che è il vento robusto
dell’appartenenza.
E poi L’albero dei sogni dove si vive il contrasto tra l’Italia e la Jugoslavia e Triste diventa un punto di riferimento. Il tutto viene contornato non da una
scrittura documentaria o da immagini – ambiente ma da uno stato d’animo che è
più vibrante di qualsiasi realtà fisica. Il romanzo è intrecciato da una
fisicità e ancora una volta da una metafisicità. Quest’ultima supera sul piano
della tensione e sul piano culturale la geografia esterna per dare un segno
tangibile a quella geografia della consapevolezza dell’io. Una forma
autobiografica che raccoglie il vissuto nel presente che si racconta.
In riferimento a questo romanzo Giacinto Spagnoletti
ha scritto: “…Tomizza coglie le sue vittorie là dove egli descrive i sogni, e
quelle pagine di carattere onirico non saranno dimenticate”. Il sogno non è una
promessa. Sostituisce quella realtà che non riesce a parlare, che non riesce a
trascrivere gli avvenimenti, che non riesce a sottolineare i sentimenti. Il
sogno raccoglie tutte queste istanze. Ma è un sogno che è dentro la coscienza
popolare.
Nel “chiaro della notte” ritornano ad uno a uno i
paesi. Si fanno ancora di più memoria e la tematica narrativa sta
nell’espressione di un esistere. L’Istria è una voce antica che porta con sé la
ritualità di vari processi di civiltà. E Tomizza non fa altro che percorrere e
ripercorrere le istanze di un vissuto. Un vissuto che ritorna e oltre a farsi
presente si realizza come ricerca.
Tutti i suoi romanzi sono la ricerca nell’avventura
di un esistere che ricostruisce, in un gioco di immagini, i ricordi che
ritornano e si fanno attesa. C’è sempre una profonda coscienza popolare che
inonda il viaggiare dei personaggi. Si pensi a La miglior vita, a Gli
sposi di via Rossetti, a Dal luogo del sequestro, a Franziska.
Dalla “saga popolare di una piccola patria” come Geno Pampaloni ha definito La
miglior vita a Franziska un romanzo dai contorni eleganti,
raffinati, metaforici. La metafora come un voler dire l’essenza delle cose
nell’essenza dell’esistere.
La storia di un amore nell’intreccio più complessivo di una storia complessiva
che riguarda sempre e comunque gli avvenimenti della diaspora, della terra
tagliata come si è già detto. La letteratura non può che respirare questi aliti
e queste tempeste. Tempeste che toccano la coscienza degli uomini come coscienza
di popolo. La religione della Patria è l’etica del radicamento nel bisogno di
identità e di appartenenza. E’ questo il messaggio che si intreccia tra le
pagine del “diario – vita” di Tomizza.
In Nel chiaro di luna ci sono simboli vaganti. Simboli che si
percepiscono, che si dichiarano e che sono occhi puntati sulla “luna”. Il paese
come sempre è il riferimento chiave che dà il via ad ogni motivazione. Si
aprono e si chiudono le stagioni e il tempo cronologico si intreccia con il
tempo dei paesaggi e della natura. Il mistero è sempre un’attesa e i giochi
dell’immaginario sono percorsi dell’anima.
Tomizza è uno scrittore che si interroga sul mistero
e il mistero è la voce indelebile che penetra quel sogno che è il viaggio nel
tempo. Nell’ultimo racconto dal titolo: “La strada del pellegrino” questa
cesellatura fa incontrare, in una sola battuta, l’alba e il tramonto. Un
silenzio didascalico nell’arcano delle incomprensione ma anche delle viuzze che
conducono all’indefinibile. Così: “Riuscii come Dio volle a raggiungere il
paesino al bivio, messo lì apposta per indicare ai viandanti la strada da
prendere”.
Questo “paesino al bivio” è la metafora di una vita, di una lingua e di una
storia o di più storie. Una metafora in cui la storia ha la sua importanza ma
la memoria che si lega al sogno è più di ogni altra cosa. Tomizza resta lo
scrittore dell’identità sommersa e della nostalgia recuperata. E le metafore
percorrono La visitatrice e La casa col mandorlo. Metafore che lasciano tracce
di malinconia: “la tristezza della carne, il gusto amaro dell’utopia che
finisce e dell’amore che viene tradito”.
Utopia e ironia sono un percorso che guida il senso della scrittura – sentiero
di Tomizza. Ma la letteratura è raccolta di pezzi di vita e nella vita la
letteratura, per lo scrittore, è costante “esercizio” esistenziale sulle corde
del tempo che si fa memoria. Questa memoria che è fatta di elementi di tempo e
da processi profondamente antropologici nei quali il senso etno- letterario
costituisce una chiave di lettura significativa. Nella vita i paesi camminano
nel cuore e nella parola danno un senso. Radici istriane che non smettono di
essere radicamento. Una compagnia che che non smette di essere compagna di
solitudine e di pensiero.