Taranto
25/04/2015
Dr.
Ippazio Stefano Sindaco di Taranto
e.
p.c.
Piero
Bitetti Presidente Consiglio Comunale
Sua
Eccellenza Filippo Santoro Arcivescovo di Taranto
Dr
Giuseppe Mele Direttore Generale Comune di Taranto
Dr.
Eugenio De Carlo Segretario Generale Comune di Taranto
Ing.
Dino Borri Incaricato dal Comune al
coordinamento per la redazione del P.U.G.
Arch.
Francesco Canestrini Soprintendente ai Beni culturali e
paesaggistici di Taranto
Arch.
Cosima Lorusso Assessore all’Assetto del Territorio
Dr.
Vincenzo Baio Assessore all’Ambiente
Sig.
Lucio Lonoce Assessore ai Lavori Pubblici
Sig.
Vincenzo di Gregorio Assessore al Patrimonio
Arch.
Silvio Rufolo Dirigente all’Assetto del Territorio
Arch.
Cosimo Netti Dirigente al Patrimonio
Dr.
Alessandro De Roma Dirigente al settore Ambiente
Avv.
Erminia Irianni Dirigente al settore Lavori Pubblici
Oggetto: Proposta d’impegno della Municipalità per:
La fusione ed erezione, quale atto riparatore, in
una nuova grande piazza, della stele di Nino Franchina, vincitore nel 1956, del
concorso nazionale per il monumento a Giovanni Paisiello;
La possibilità di una buona “sorte” per l’edificio
alla Ringhiera ( Corso Vittorio Emanuele II ) destinato a TARTARUGAIO, con
un’ipotesi progettuale di ricucitura urbanistico-architettonico e recupero di
senso etnico-antropologico del sito, sistemandovi sul terrazzo-balconata, a
cura dei critici d’arte Arturo Tuzzi, Alberto Altamura, Michele Brescia; degli
architetti Armando Palma, Fabrizio Corona e dello scenografo Erminio
Biandolino, le opere di Secondo Lato, Raffaele Bova, Aldo Pupino e Vittorio Del
Piano;
Lo svincolo e il riuso, per attività
socioculturali, degli ampi locali collocati sul Canale Navigabile, dal versante
di Mar Piccolo, sotto il marciapiede-terrazzo di Corso Ai Due Mari.
Signor Sindaco,
ancora oggi, solo la parte più sensibile della
città ha guadagnato la consapevolezza che Taranto Vecchia, al di là degli
edifici di pregio e del folclore, è un monumento da salvare nel suo insieme - sito,
mito, umanità, storia – come ebbe ad affermare, nel 1973, Pierre Restany,
dopo una lunga e meticolosa visita all’impianto urbanistico-architettonico e
conversato con le persone che lì abitavano, accompagnato da un gruppo di soci
dell’Università Popolare Jonica e della cooperativa culturale Punto Zero e
ribadito da Vittorio Farella di cui riportiamo il pensiero: “qualsiasi
itinerario predeterminato nella Città Vecchia è sempre limitato ed
assolutamente inadeguato: qui ogni angolo, ogni vicolo è una realtà da scoprire
e tutti insieme costituiscono un patrimonio di arte e di storia lentamente
formatosi e stratificatosi nel corso dei secoli ”, Taranto Topografia e
Toponomastica a cura di Sario Binetti, Francesco D’Elia, Antonio Donati,
Claudio Donati, Vittorio Farella, Francesco Panettieri, Temistocle Scalinci, Marcello
Vuozzo, Edizioni Punto Zero, 1985.
La Municipalità deve impegnarsi per richiamare
alla memoria collettiva la conoscenza, il rispetto e l’uso corretto di questo
tesoretto: il lievito atto a far crescere le soluzioni di successo sia per la conversione
dell’Arsenale Militare sia per il nuovo P.U.G.
Purtroppo la maggioranza dell’opinione pubblica,
da tempo e in più occasioni, senza pensarci su più di tanto, si è fatta
prendere dalla frenesia di volersi rinnovare autodistruggendosi, vedasi la
brutta fine che fece la Cittadella e la torre di Raimondello Orsini.
In questa scia s’inserisce l’odierno irresistibile “Spìule”,
ovvero il desiderio irrefrenabile, di abbattere qui ed ora, senza ma e senza
se, il Muraglione dell’Arsenale Militare, pur se costruito in stile
neoromanico, con la stessa pietra degli spalti del Castello Aragonese, ad
esprimere all’esterno la sicurezza e la continuità, con il ruolo della città
come grande piazza marittima, e all’interno la bellezza e la
leggerezza date da una lunga fila di archi ogivali e accentuate dal salto di
quota, tali da a richiamare l’aura rassicurante di un edificio di culto e di
lavoro, un grande e arioso, funzionale Opificio Militare, a somiglianza
di un convento fortificato prospiciente il mare dell’Ordine dei Cavalieri di
Malta.
Sarebbe opportuno, invece, di pensare ad un
intervento rispettoso del senso del Muraglione rispetto all’ Arsenale e idoneo
a permetterne, attraverso l’apertura di alcuni varchi, la vista, dall’interno e
dall’esterno.
A seguito del Decreto Legge 5 gennaio
2015 n. 1: “Disposizioni urgenti per l’esercizio di imprese di interesse
strategico nazionale in crisi e per lo sviluppo della città e dell’area di
Taranto” sono partite, con poche idee e scarse
risorse finanziarie, le grandi manovre per la conversione dell’Arsenale
Militare, un’impresa da far tremare le vene ai polsi per complessità e
difficoltà d’ogni genere, sociali, economiche, culturali, paesaggistiche, urbanistiche
e di bonifica dei siti inquinati.
Invece, prende nuovo slancio il Movimento per l’abbattimento
del Muraglione dell’Arsenale, con il pericolo che gli affiliati da una
Falange diventino una Legione! Struttura che al contrario secondo
noi, meriterebbe un’ altra sorte e intanto, liberato dai cartelloni
pubblicitari, bisognerebbe cominciare a considerarlo come un grande papiro
srotolato su cui far rivivere, attraverso l’alitare dell’Arte, il Mito e
la Storia, -come immaginato da Tommaso Niccolò d’Aquino nel poema Deliciae
Tarantinae (delle Delizie Tarantine) dove il Nostro colloca,
intorno al Fonte del Sole, le statue di personaggi mitici e storici,
nella contrada di Santa Lucia, dove oggi si estende l’Arsenale Militare -.
Gli artisti, di oggi e di domani, potrebbero lasciare sul Muraglione il
proprio segno per rivisitare il passato ed aiutarci, prima e meglio, a
capire dove e a che velocità oggi stia andando il Mondo.
Trattasi di un momento culturale di passaggio
stretto ed irto, difficile da percorrere ma necessario per fare uscire la città
dalla morta gora della monocultura industriale a ciclo integrale, e non
ci si può attardare nel più trito conservatorismo o sul nuovismo di maniera, ma
urge procedere, per non finire nei cascami della storia, come ammoniva Antonio
Rizzo: “aprendosi alla modernità senza rinnegare il passato, e
coltivando il passato senza chiudersi alla modernità”. Numerosi
ed eclatanti sono stati gli episodi in cui si è rifiutata a Taranto la
modernità, vuoi per arretratezza, pigrizia, paura e vuoi per accontentare le
vestali del conformismo timorosi di prendere il ruolo. Ciò che avvenne al tempo
del “Premio Taranto di Pittura” quando apparvero sui muri della città
scritte come “abbasso i”rivoluziosti dell’arte”. A
seguire, In occasione del concorso nazionale per il monumento a Paisiello,
si toccò il fondo quando la giuria, presieduta da Raffaele Carrieri,
composta da Cesare Brandi, Marco Valsecchi, Pericle Fazzini, Ignazio Gardella,
Virgilio Guzzi e Bruno Zevi, scelse all’ unanimità, su altri cento
bozzetti, quello di Nino Franchina: un fuso d’alluminio in
anticorodal librato nell’aria alto 10,5 metri. Una grande scultura
astratta che non si volle far realizzare e si contestò, ricorrendo a risibili
cavilli burocratici e a pasticci amministrativi (l’ora di consegna del bozzetto
alla Segreteria del concorso) optando, arbitrariamente, sull’opera di Pietro
Canonica. Franchina scartò l’ipotesi scontata di celebrare Paisiello
attraverso la sua effige ma scelse un segno astratto interprete delle
suggestioni ed emozioni della sua musica.
La sua negata realizzazione rimane una ferita da
rimarginare, facendo, ora per allora, fondere l’opera, progettare una nuova
grande piazza dove erigere il monumento a Giovanni Paisiello e far
svettare, luce nello spazio verso il cielo, il fuso di Nino Franchina:
un atto riparatore dovuto verso l’Autore; un risarcimento postumo a Raffaele
Carrieri per la figuraccia che la sua amata città gli fece fare di fronte
alla giuria e alla cultura europea, un’ onta che determinò una sua lettera di
protesta al sindaco e una lettera, di rammarico per l’accaduto, ad Antonio
Rizzo e il suo esilio volontario dalla sua amata città. Questo sarebbe: un
viatico per aprirsi alla modernità; un vessillo dietro cui marciare a ranghi
serrati per stare al passo con i tempi. Taranto ha negato la cittadinanza alla
scultura di Franchina e l’ha concessa supina al nuovo Campanile,
in sostituzione di quello normanno, del Sopraintendente Chiurazzi
della Cattedrale di San Cataldo, definito da Cesare Brandi
un “ributto”. Per fortuna il campanile normanno rimane immortalato
nelle fotografie e gli oli di Francesco Troilo e dalle punte secche di Piero
Casotti. Su questa strada si è continuato con il muro del pianto alla
Ringhiera, costruito in barba al piano di restauro conservativo,
sottratto all’esame della commissione edilizia grazie all’intesa tra il sindaco
e due architetti di punta dell’Ufficio Risanamento Città Vecchia.
Questa sequela poteva essere interrotta dall’intervento
del maestro tarantino Nicola Carrino a Piazza Fontana - la
Gran Piazza - epicentro, per secoli, della vita civile ed economica
con una scultura moderna, poco discussa e mal digerita; così come progettata e
realizzata non si può, certo ascrivere tra gli interventi in punta di penna,
in quanto debordante e mal accasata nel contesto funzionale
della piazza. Infatti non si è riusciti a portare la vita nella piazza e
la piazza nella vita, e così la fontana, invece di dissetare le persone,
se le mangia. Questo perché, negli interventi in Città Vecchia,
oltre ai valori urbanistico-architettonici, un ruolo portante lo devono giocare
lo svolgersi della vita di relazione e i valori etno-antropologici.
Constatiamo, con rammarico, che a Taranto
persistono atteggiamenti atavici, di pigrizia, conformismo e arretratezza
culturale, lenti a morire, se, ancora di recente, nella Città Vecchia, nei
giardini di via Garibaldi, si è eretto un monumento con una scultura tutta
giocata sulla figuratività.
Queste sbavature e sfilacciature partono da dopo
l’Unità d’Italia, quando, a seguito del piano regolatore di Davìdde Conversano,
approvato dal Consiglio Comunale nel 1864, l’affaccio al Mar Grande fu
ristrutturato modificando in parte il profilo della costa e abbattendo le mura
di difesa per allargare strada: la Ringhiera, oggi Corso Vittorio
Emanuele II.
Un piano regolatore che, per i tempi, fu degno di
una classe dirigente cittadina attenta, capace, lungimirante nel programmare, con
misura e realismo, lo sviluppo urbanistico della città.
Il piano regolatore di Davìdde Conversano
era rispettoso delle risorse naturali, coglieva e valorizzava il paesaggio,
esaltava le potenzialità produttive dei Due Mari, considerava le
opportunità offerte dall’Unità del Paese, prevedeva l’esigenza di connettersi
con la nascente rete delle strade ferrate - il nuovo rivoluzionario
sistema di trasporto delle persone e delle merci - e la necessità dell’allargamento
e ammodernamento del porto mercantile, in previsione dell’apertura del Canale
di Suez (1869).
Un
evento questo dalle conseguenze geopolitiche di grande portata che avrebbero
messo il Mediterraneo nuovamente al centro del commercio marittimo
intercontinentale. Un piano regolatore con una visione proiettata nel futuro, agganciato
all’eredità dei secoli precedenti, testimonianza di modelli economici sociali
di successo. Consci che per essere al passo con la storia non basta tenere ben
saldi i piedi per terra, valutare con scrupolo le proprie forze, favorire le
competenze, rispettosi del proprio vissuto storico, ma anche sapere pensare
globale.
Purtroppo questa visione olistica, diacronica e sincronica,
venne a mancare nel 1882 allorché furono avviati i lavori per la costruzione
dell’Arsenale connesso all’insediamento del Secondo Dipartimento Marittimo
Militare.
Il costo per la città in questa occasione fu una
modificazione profonda della sua facies sul prospetto Sud-Est; si demolirono
sia il Ponte di Porta Lecce su tre campate che quello dell’Avanzata pertinente
il Castello. Si procedette alla demolizione della cortina muraria e degli
spalti e del bastione della Monacella dell’Università mentre il bastione
S. Angelo fu risparmiato e inglobato al Castello.
Per la portata dell’intervento si trattò di una
svolta radicale per il destino della città dove interessi superiori esterni ebbero
agio su quelli autoctoni.
Comunque ad esprimere lo spirito di modernità, il
segno connotativo di una visione, di un prorompente desiderio di cambiamento, tanto
ardito e bello quanto solido e funzionale, fu la progettazione e la costruzione,
nel 1868, del primo Ponte Girevole, opera dell’ingegnere napoletano di
scuola francese Alfredo Cottrou, realizzato con l’innovativa
tecnologia del ferro con i rivetti ribattuti a caldo (la medesima adoperata
dieci anni dopo per la Torre Eiffel). L’apertura veniva a mezzo di due
grandissime turbine idrauliche appositamente costruite.
Quando si apriva il ponte, dividendosi in due
tronconi simmetrici, gli astanti assistevano attoniti allo spettacolo di una
solida e possente infrastruttura, pensata per la mobilità tanto delle persone quanto
dei mezzi terrestri e navali, leggera e trasparente nell’aria e riflessa
nell’acqua del canale navigabile sottostante. La ringhiera-passamano del ponte
era una trina che richiamava la trama di una nassa o il disegno di un
copriletto all’uncinetto a maglie larghe, come se ne vedevano ancora all’epoca
nelle camere da letto delle case gentilizie. Ai tempi d’Archita Taranto
era nota per il colossale Zeus bronzeo, una delle sette Meraviglie
del mondo d’allora, posizionato sull’Acropoli e oscillante al vento
dirimpetto a Mar Grande; il Ponte Girevole era la moderna Meraviglia di
Taranto.
Al momento del pensionamento del
ponte, nel 1954, dopo aver degnamente rappresentato il simbolo della
modernità dell’Italia, della grandezza della marina militare e l’orgoglio della
Municipalità, non gli fu riconosciuto sia il valore di reperto di
archeologia industriale sia quello di opera d’arte. Al povero ponte,
dopo aver servito con onore e prestigio la Marina Militare e la Città,
non fu trovato nell’immenso Arsenale un cantuccio dove godersi il meritato
riposo a testimonianza dei fasti di un’Epoca. Il nuovo simbolo della
città più conosciuto, dopo quello di Taras sul delfino, che è stato
spedito, a mezzo cartolina illustrata, dai marinai imbarcati sulle navi di base
a Taranto, a parenti ed amici sparsi in Italia e nel Mondo.
E invece, meschino,
gli è toccato un destino crudele: inopinatamente è stato rottamato come ferro
vecchio e riciclato!
E ad oggi, a Cottrou,
autore del ponte-meraviglia, sintesi di tecnologia, solidità e bellezza,
simbolo della modernità di una Nazione, orgoglio di una Municipalità,
non è stata intestata nemmeno una strada!
Questo è espressione
di smemoratezza, incapacità di saper separare il grano dal loglio, del
confondere fischi per fiaschi, indice di arretratezza culturale e
provincialismo!
In questa collana,
se non si corre ai ripari, potrebbe rientrare l’edificio sorto alla ringhiera a
Mar Grande per la cura delle tartarughe marine: un frutto
avvelenato della caccia al finanziamento, dei tempi stretti per redigere
il progetto, di commistione di ruoli, di disguidi amministrativi. Sono queste
le ragioni che hanno portato a sottovalutare le compatibilità e le correlazioni
tra i diversi valori culturali stratificatisi nella Città Vecchia in tempi e
modi diversi dal nostro.
Episodio
edilizio-urbanistico sfortunato, quello del tartarugaio, che va affrontato e superato,
al di là delle questioni giuridico- amministrative, a mezzo dell’Arte.
La creatività, da sempre, agisce come elemento di composizione tra le necessità
pratiche della vita e la ricerca del bello e del trascendente.
Ciò potrebbe essere
un’occasione per rivisitare il millenario rapporto simbiotico tra la Città
Vecchia con i sui templi, spazi pubblici, case d’abitazioni popolari e
gentilizie e i Due Mari.
Quando un intervento
edilizio sorge per sventatezza, su un’impostazione culturale claudicante per
non aver tenuto conto, della complessità e fragilità del tessuto urbano, non considerato
come il tutto - persone e cose - si sia sviluppato nel tempo, con l’apporto
delle generazioni che si sono succedute, al fine di meglio stabilire quali siano
le cose da conservare e quali da ringiovanire per rimanere percepibili e
apprezzabili dalle nuove generazioni. Occorre esercitarsi a scrutare nelle
pieghe del passato per comprendere il presente e delineare il futuro.
La pluralità dei
soggetti coinvolti, con indirizzi culturali diversi e con tempi di lavoro
differenti, hanno complicato a dismisura, fin dalla progettazione, l’iter
dell’intervento, un intreccio burocratico amministrativo; che ha finito il
trasferire la questione al Tribunale. E intanto, per lapidazione mediatica, gli
tocca, senza appello, ”‘a sòrtə d’u píchərə: nàscə
curnútə e mòrə scannátə“!
Quelli che ci fanno
perdere il lume della ragione ed incorrere in errore e uscire dalla storia sono
sia coloro che sono ossessionati a mantenere lo status quo - laudatores
temporis acti – sia quelli assetati di giustizia sommaria e gratuita.
La struttura,
invece, se ricomposta tramite l’Arte, riconciliata, col vissuto storico, inglobata
nel tessuto urbano, potrebbe costituire un omaggio al sito, al mito, ed alla
storia di Taranto. Per questa ipotesi basta recuperare i progetti di alcune
opere artistiche pensate per la città ma non realizzate è si potrebbe ripristinare
il rapporto biunivoco, concettuale e fattuale, tra il nuovo bastione e
l’Isola.
L’operazione
comporterebbe la sistemazione di quattro opere progettate da Raffaele Bova
“Omaggio ai citri di Mar Piccolo e Mar Grande” in formato 2,40 x 2.40 metri
da realizzarsi in marmo mischio
Opere che
restituiscono in modo efficace tre citri del Mar Piccolo ed uno del Mar Grande:
‘u Cìtrə d’u jumə d’u Galesə, ‘u Cìtrə Braccəfortə,
‘u Cìtrə d’ a ciámpə e ‘u Cìtrə Ajèdde, a
Mar Piccolo e ‘u Cìtrə Anièddə de San Catàvətə (dell’Anello
di San Cataldo) a Mar Grande.
Il Maestro Raffaele
Bova
ha approfondito il fenomeno naturale nel 1987 durante un suo soggiorno a
Taranto, che ha dato i suoi frutti con la riproduzione in tutta la loro potenza
e bellezza del fenomeno dei citri. Le opere colgono in modo magistrale
l’effetto del mescolamento dell’acqua dolce sgorgata dal citro con quella
salata del mare, determinando nei gorghi diverse tonalità dell’azzurro.
Per rendere fruibili a tutti
questo fenomeno naturale, nella sua potenza e bellezza, il WWF Taranto con Jo.tv
sta predisponendo i mezzi tecnici e reperendo le risorse, per riportare i citri
all’attenzione nazionale attraverso la ripresa in diretta del “ribollire”
delle acque dei citri.
Le opere di Raffaele Bova erano
state prodotte per far parte della collana di arte moltiplicata edita dalla
Cooperativa Punto Zero “Gli Ori di Taranto”, collana allora diretta da Arturo
Tuzzi e Franco Sossi. Opere che sussumono l’anima più segreta dei Due
Mari di Taranto che, se sistemate in visione permanente sul terrazzo, aiuterebbero
a superare la dicotomia tra il nuovo bastione ed i fabbricati della Città
Vecchia del lungomare Vittorio Emanuele II.
I progetti originali, in scala
cm 40x40, sono di proprietà della Cooperativa Culturale “Punto Zero”, che li metterebbe
volentieri a disposizione. Le opere progettate per essere realizzate in marmo mischio,
se incastonate nel pavimento del terrazzo del tartarugaio possono aiutarci a
riconciliarci con la natura e il paesaggio.
Il fenomeno naturale dei citri
appare agli occhi del visitatore come fontane rovesciate dove “[…] l’acqua
dolce, che qui sgorga dal fondo del mare, nel salire alla superficie par che
bolla, come nella caldaia stando al fuoco” (G. B. Gagliardo, 1811).
Al centro del terrazzo, secondo
la nostra ipotesi, verrebbe eretto un monumento” - per la vivibilità del Mar
Piccolo e del Mar Grande” -progettato dal Maestro Secondo Lato: una
stele tra il Futurismo (Boccioni) e il Movimento per l’Arte Concreta;
tre delfini inforcati, scattanti, coordinati che s’immergono, per una battuta
di caccia, nella profondità dello Jonio. Un opera astratta-concreta dove l’elemento
naturalistico, i tre delfini, si fonde con il segno astratto del movimento
sincronizzato determinato dall’intreccio delle code con le pinne. Il bozzetto è
stato realizzato dal Nostro in legno di quercia, alto 120 centimetri ed è di
proprietà del Comune ed è esposto nella stanza del capo di gabinetto e andrebbe
fuso, alla grandezza naturale, in alluminio anticorodal.
La stele sarebbe il modo
migliore per la narrazione del sito, del mito, della storia della nostra
comunità e risponde appieno con quanto hanno scritto su di lui : Alberto
Altamura -“la voce artistica di Lato è sola sua, originale,
inconfondibile -”; e Giacomo Battino-“Secondo Lato, è un
artista (cataldiano) che non è rimasto estraneo al moto
industriale e tecnologico che ha investito la città di Taranto a partire dagli
anni 60, al quale ha guardato con occhio vigile e pungente attesa e le sue
opere sono la testimonianza del filiale affetto del Nostro per la propria
terra, sentendovisi immerso senza esserne prigioniero, generando opere che
trascendono la contingenza della rappresentazione per porsi come oggetti
connotativi, perfetti e simbolici-
Impegnativa, sarà l’opera di raccordo della Ringhiera-balaustra
di Aldo Pupino, uno dei più fecondi e versatili artisti tarantini. Egli
per, cogliere nel segno, pensa di ritagliare dalle lastre d’acciaio l’immagini
stilizzate della tartaruga Caretta- caretta del Delfino,
del Gabbiano: un anfibio, un uccello ed un mammifero e molluschi
lamellibranchi grandi filtratori: il mitile (‘a Cozzə) a sottolineare
l’importanza della nostra maricoltura, e ‘a cozzagnàchələ (cozza San
Giacomo), un richiamo ad uno dei segni distintivi de lə perdùnə, in
onore di San Giacomo per il rito penitenziale del pellegrinaggio nelle
processioni dei Misteri durante la Settimana Santa, ’a paricèddə ( Pinna
nobilis) nel ricordo “n’otra ricchezza ca l’onnə ‘immidiàte/ ne dése ‘a paricedde,
ca p’u pregge/ d’a varve cu ‘u culòre d’ore ackiàte,/ tessèmme vèste e mande
pe’le regge…” (De Cuia, ’A Storia nostre),cuèccelə gendilə
e cuèccelə vellànə (murici) a rimembranza di “vellàne ’U
cueccele gindile cu ‘u vellàne/ darene a Tarde ‘nu viòle rare ca nù à
‘ndeennemme porpora (De Cuia, ‘A storia nostre).
A significare: la Tartaruga la longevità
e fedeltà; il Gabbiano la libertà e lo spirito di adattamento e il
Delfino il patto d’amicizia, e che amicizia, stretto tra i tarantini e la Natura,
tra l’uomo e il mammifero marino più intelligente.
Le sagome degli animali
rivenienti dalla lavorazione delle lastre di acciaio INOX della ringhiera-balaustra,
verrebbero una parte sistemate sulle pareti esterne in carparo dell’immobile e
la parte restante, numerate, datate, punzonate con lo stemma del Comune di
Taranto e firmate dall’artista.
La ringhiera della passerella di
collegamento per accedere dal marciapiede della Ringhiera al bastione del
tartarugaio sarebbe concepita e studiata in armonia con puntuali
riferimenti connotativi al nostro ecosistema, alla peculiare realtà
etno-antropologica e a quella urbanistico-architettonica. Così concepita la ringhiera-balaustra
sarebbe un segno eco-artistico: marcatore; riparatore; ricucitore.
Per noi Tarantini fare riferimento
alle tartarughe, ai delfini e ai gabbiani è un atto dovuto considerando che,
nonostante il disastro ambientale, sulle spiagge del Golfo di Taranto,
numerosi sono ancora i nidi di Caretta-caretta e il Sinus di
Taranto si sta caratterizzando sempre più come luogo deputato alla
salvaguardia dei delfini.
La stele di Lato in uno con i
quattro citri in marmo mischio di Raffaele Bova, incastonati nel pavimento del
terrazzo, la ringhiera- balaustra per la passerella d’accesso al terrazzo di
Aldo Pupino, così assemblati, costituirebbero un ponte concettuale e fattuale
di collegamento tra il sito il mito e la storia di ieri e di oggi;
l’apposizione di un nuovo sigillo sulla antica pergamena del patto d’amicizia,
stipulato, da sempre, tra i tarantini e il mare.
A completamento e coronamento
del tutto per rimarcare la cifra etnico-antropologica, a livello
del mare, nello spazio tra il fabbricato e il muro di cinta del porto
turistico, andrebbe sistemato, in terra battuta, un campo per il gioco di
strada tutto tarantino della Livoria adoperando, come attrezzi di
gioco, il multiplo, 1/1000, di Vittorio Del Piano “Omaggio al museo
etnografico Alfredo Majorano” presentato il 1979 dalla cooperativa
Punto Zero All’Expo Arte di Bari.
Un gioco di strada che sta a metà
tra il biliardo e le bocce, impegnativo e divertente per i giocatori per il continuo
movimento per gli spostamenti, lo star piegati sulle ginocchia, coinvolgente e
bello da guardare per la “rùfelə”.
Dal terrazzo de tartarugaio si potrebbe
osservare lo svolgersi di una partita di livoria: un tuffo salutare nel
passato, per i tarentini e una calamita per i forestieri.
Sarebbe proficuo puntare al suo recupero
di un gioco popolare connotativo della nostra etnologia la cui perdita, a ben
considerare, è tanto importante quanto la demolizione della Cittadella gli
Orsini - dalla cui cancelleria è uscito Il Libro Russo (Rosso)
-testo giuridico-sapienziale - o per la statua della nostra Dea
in Trono - esposta nel Museo Altes di Berlino - o per la
rottamazione del vecchio ponte girevole.
Sino agli 50 a Taranto Vecchia
come al rione Tamburi, dove c’era uno spiazzo libero in terra battuta, grandi e
piccini, praticavano con impegno, apprensione e trasporto il gioco della Livoria.
Un Gioco di strada presente, già
nel Medioevo, oltre a Taranto in città marinare quali Catania, Messina, Savona
e Siviglia, in letteratura ne parla “Cervantes, in Persiles, l libro 3cap.6” e
ce ne dà una rappresentazione pittorica mirabile, in un suo quadro, Bartolomè
Estoban Murillo-1665-70- attualmente esposto nel prestigioso museo di Londra “Dulwich
Picture Gallery”.
Un gioco alla portata di tutti,
e per tutte l’età, che per praticarlo, occorrevano: Uno spiazzo rettangolare di
metri di almeno 20x15 in terra battuta in condizione che le due palle tornite
di legno d’ olivo o di corbezzolo di 10 cm di diametro potessero ben srotolare,
due palette in legno duro, per spingere la propria palla, lunghe un palmo di
mano e tre dita, un anello di ferro forgiato a forma di gamma greca capovolta,
con tacche diverse, ad indicare su un lato a vòcchə e sull’altro
‘u cùlə. La circonferenza d’a scìddə
doveva essere appena appena più grande del diametro delle palle in modo che
queste dovessero passare lìeste lìestə. Questa veniva
conficcata a terra con cura e perizia perché oltre a rimanere dritta doveva ben
girare su se stessa e mantenere la rotondità. Ciò si otteneva: piantando ‘a
scìddə per terra infilandovi un tocco di legno su cui
battere per non farla deformare; versando, prima di piantare ‘a scìddə,
un poco d’acqua nel terreno.
Queste operazioni preparatorie
servivano per facilitare il passaggio della palla da dentro ‘a scìddə
per fare punto e permettere una grande varietà di colpi connessi alla sua
mobilità. Con la punta d’a scìddə, si praticava un solco per
segnare la linea da menate (della menata – d’a dove cominciava la
partita).
La partita iniziava dopo aver
pattuito se la partita era a 21 o25 punti, si segnava a terra
c’u ‘a punte da scìddə la linea di partenza, si sgagliavə
(scagliava) ‘a ù tùecchə (il tocco) designare a sorte tra i due giocatori
aprendo una mano con un numero di dita a proprio destro venivano sommate e
secondo se pari o dispari si stabiliva la precedenza, che dava la possibilità
al giocatore di fare punte de menate e il diritto di ripetere la giocata.
Durante il gioco se
volontariamente o per accidente uno veniva toccato dalla propria palla allora nò
pùtevə cacà! ciò comportava che il giocatore non poteva toccare
la palla dell’avversario ne toccare à scìddə, poteva solo
posizionare la palla dicendo pòzzə pìscià!
Nel gioco, per
vincere, necessitava occhio, polso, destrezza, tattica, allenamento, conoscenza
del campo di gioco (‘a tàvule), astuzia, pazienza, capacità di
sopportazione e molta fortuna.
Questa ultima si
presentava, con prepotenza, già al momento di menare il tocco in quanto chi
tirava la palla per primo poteva fare puntə də mənátə una o
più volte ipotecando pesantemente l’esito della partita, oppure il caso raro in
cui la palla dell’avversario si posizionava ammàsatə ‘a scìddə da
vannə d’a vòcchə e la propria palla d’a vannə d’u cúlə,
alla distanza di almeno una paletta e tre dita, si poteva tirare un colpo che
se andato a segno valeva tre punti. Il giocatore fortunato esclamava: cavə
da ‘ncgúlə tre puntə pùppú! Nel contempo un fausto annuncio, un
auspicio, un grido di battaglia! Altre circostanze fortunate: ‘nu cavə də
‘na palèttə!
Sola destrezza: pè
‘nu tirə a nàcchətə e puntə;
‘nu tirə a scippə carducciə (fare girare ‘a scìddə d’a vannə
d’u cùlə per impedire all’ avversario di fare punto); ‘nu tirə ‘a
zùmbbicchiə ( quando posizionata d’a vannə d’u cúlə
si tirava sollevando la propria palla al di sopra da scìddə per
colpire e allontanare la palla dell’avversario che si trovava posizionata d’a
vannə d’a vòcchə); ‘na fècozzə a lìvitə e
mìttə ( quando, con un tiro potente e preciso, si colpiva la palla
dell’avversario in modo d’allontanarla più distante possibile e di sostituirsi
con la propria nella medesima posizione); ‘nu cavə də tre passə;
‘nu pùntə d’a mənátə (quando la propria palla passava da ijndə
‘a scìddə, già alla mənátə valeva due punti come per il càvə);
’nu cavə də quattə passə ( per questa giocata occhi di
lince, ponderazione e polso di ferro).
Si
tratta di un gioco di strada che nel contempo comporta, capacità atletica per
dover starare piegato sulle ginocchia in equilibrio e spingere la palla con la
giusta forza, destrezza, e nervi saldi. Primariamente questi ultimi in quanto non
era da tutti far fronte, durante lo svolgimento della partita, di rintuzzare a
dovere ai frizzi e ai lazzi e persino scherni d’a rufele (crocchio-capannello)
che muovendosi intorno alle palle accompagnava la partita.
Non vi erano sconti per nessuno!
Per il giocatore, “scapucchiònə “, ad ogni piccolo
sbaglio, molti, pungenti, coloriti e strillati gli epiteti, i proverbi e
i wellerismi di scherno, e, per quello bravo, anche se campione riconosciuto,
come da atavico comportamento cittadino, le parole di compiacimento, di
apprezzamento e di elogio: poche, parche e a voce bassa!
Un gioco con reminiscenze
classiche greco-romane, da teatro fliacico e contaminazioni iberiche,
tramandato da una generazione all’altra negli spazi comuni, fuori dall’ambiente
domestico senza rigida separazione di ceti e di età governato da regole
strette. Un gioco che, imparato in giovane età veniva praticato anche da anziani,
così da cementare la concatenazione sociale verticale ed orizzontale.
Un gioco declinato tra il colto
e il popolare, tra il serio e il faceto, un ibrido il cui andamento dipendeva
tanto dai giocatori quanto dagli attenti ed affilati spettatori, in costante
ricerca d’u sugèttə (lo zimbello) di turno, sorte che poteva
toccare a uno dei due giocatori come ad uno d’a rùfelə, che
ne facevano un gioco impegnativo, inclusivo, tenuto sulla corda,
imprevedibile. Un gioco di strada la Livoria , praticato,
da grandi e piccini, nelle strade, piazze, sagrati, angiporti, parchi e cortili.
Infatti, intorno (‘a tàvulə)
al campo di gioco, sia per i giocatori sia per gli spettatori, vigeva la regola
non scritta, di potersi esprimere in libertà e toccare anche argomenti
scabrosi, fare allusioni ed esprimere giudizi sugli avvenimenti politico-sociali
a livello locale e nazionale su persone e fatti; una valvola di sfogo e, per
certi versi, una palestra di democrazia e di saper stare al mondo.
Il gioco, nella sua
coinvolgente ritualità, favoriva l’abitudine a saper stare insieme, quando e
come parlare ed ha avuto, per secoli, lo stesso ruolo socializzante degli Oratori
delle Confraternite. Il gioco aveva praticanti, affezionati e bravi, in tutti i
ceti sociali. Di sicuro giocatori sono stati: Emilio Consiglio, Michele De
Noto, Nicola Portacci, Vito Forleo, Raffaele Carrieri, Franco Cuomo, Spirdione
Pignatale, Francesco Troilo, Franco De Gennaro, Nicola Gigante, Secondo Lato,
Domenico Carone, Claudio De Cuia, Antonio Russo, Filippo Di Lorenzo, Ottavio
Calore, Biagio Coppolino, Michele Picardi e Emanuele Basile.
Un gioco di strada andato perso,
con il disappunto di pochi spiriti eletti, di cataldiani veraci quali
Michele De Noto il primo a stilare il regolamento del gioco, Cosimo Acquaviva,
Emilio Consiglio, Giuseppe Cassano, Alfredo Majorano, Nicola Gigante,
Temistocle Scalinci, Secondo Lato con le sue sculture in legno ,pietra e bronzo
dedicate ai – momenti e movenze del gioco della livoria-, Diego
Marturano, Ottavio Guida, Emanuele Basile con il suo esilarante racconto breve “stràzzacasonə”,
Franco Laterza nel suo saggio “ Antichi giochi di strada”, pag. 258-259, 2010 -
edizione nordsud e Vittorio Del Piano con il suo multiplo degli
attrezzi – scìddə, palle e palette- per il gioco
della livoria, 1979, Giovanni La Catena con quadri surrealisti
,di struggente nostalgia, per l’oblio caduto sul gioco di strada più
divertente, formativo e connotativo del costume dei trentini: la Livoria.
Un colpo mortale, alla
sopravvivenza del gioco, fu inferto dal Regime Fascista impegnato nella lotta senza
quartiere all’uso del dialetto e, figuriamoci se con espressioni indecenti,
l’esigenza politica di scoraggiare ogni occasione di assembramento di persone
non autorizzato e di capannelli intorno ad una partita di Livoria
dove, per consuetudine consolidata e praticata, ai giocatori e alla rùfelə,
era d’uopo, sia pure con garbo, dire peste e corna su tutto e di tutti. Il
resto l’ha fatto il diffondersi del gioco del calcio e l’avanzare della società
dei consumi. Così vanno le cose del mondo quando ci si comporta secondo il
capriccio di Goja “Il Sonno della Ragione genera Mostri”!
Signor Sindaco, la costruzione
per il tartarugaio alla Ringhiera sospesa per offesa al paesaggio e per qualche
pecca di procedura amministrativa, potrebbe essere ripresa e portata a termine
a condizione che sia mitigata la prima e sanate le seconde strutturato
l’edifico a Bastione per la difesa degli animali marini dello Jonio e dei
valori etnico- antropologici della Città Vecchia.
In questi frangenti è il senso civico, l’onestà
intellettuale, un pizzico di generosità, il coraggio ad affrontare gli
ostacoli, che ci può fare accettare la sfida, ma è solo l’Arte che ci
può essere di ausilio per uscirne vittoriosi. Per cogliere nel segno, definito
il progetto, prima di passare all’approvazione e mettere mano ai lavori,
occorrerebbe procedere all’elaborazione grafica tridimensionale e sottoporlo al
giudizio dei tarentini e non solo. Occorrerebbe smetterla con la svagatezza
individuale, la distrazione collettiva, e, invece, sapersi interrogare e fare
domande mirate e circostanziate, senza timore di disturbare il manovratore, di
formulare proposte ritenute necessarie anche contro corrente, e mobilitarsi,
insistere e persistere con tenacia, per avere risposta.
Signor Sindaco, una domanda-richiesta dalle
cento pistole Le è già stata posta: lo svincolo e il riuso dei locali
collocati sotto corso Ai Due Mari a fini socio-culturali; trattasi degli ampi locali
voltati e settati, con quattro ingressi e tredici finestre per l’illuminazione,
di circa 800 mq di superficie. Ambienti che, per la loro ubicazione, una
posizione strategica per esser di sostegno alla rinascita del Borgo,
della Città Vecchia e alla conversione dell’Arsenale Militare,
per la scelta dei materiali usati, per la qualità costruttiva, per la
disponibilità di parcheggi di pertinenza (4 autobus granturismo), se
opportunamente ristrutturati e attrezzati, sarebbero quanto mai preziosi per lo
svolgimento di attività culturali ospitando mostre, seminari e convegni aventi
ad oggetto anche le esperienze virtuose di rigenerazione urbana, di restauro
paesaggistico, di riuso di compendi industriali dismessi salvaguardia e difesa
ambientale praticate da altre città europee utili per alimentare il
dibattito. La struttura, se svincolata e resa fruibile ai tarantini,
permetterebbe, altresì, ai frequentatori di godere dello spettacolo
naturalistico del flusso di alta marea nel Canale Navigabile, di sei ore in sei
ore, de Chiòmə (di chioma quando l’alta marea defluisce dal
Mare Piccolo a mare Grande) de Sèrrə (di serra-
il cui etimo deriva dal latino= entrare- quando il flusso di marea dal Mar
Grande entra in Mar Piccolo).
Così come la palazzina-bastione per il
tartarugaio non può rimanere, ancora per molto tempo, incompiuta priva di
funzione con un destino incerto, in quanto si trova in un sito ad alta frequentazione
di tutta la popolazione attiva, che fiacca lo spirito vitale dell’intera
cittadinanza, non capendone le ragioni dell’interruzione prolungata dei lavori.
Il fabbricato, per dove è collocato, per il fine perché è nato, non può
rimanere incompiuto, privo di funzione e aspettando Godot!
Tempo per elaborare il lutto ne
abbiamo avuto a sufficienza e considerato che i Ministri del Culto per
officiare il rito, hanno molto altro a cui pensare riteniamo sia possibile
tentare un intervento che sia nel contempo una presa di coscienza della
complessità e un’assunzione di impegno civico. Ogni intervento nella Città
Vecchia, per essere compatibile ed efficace, comporta discernimento, ordine,
metodo, coinvolgimento, pensiero condiviso, senso della misura e creatività. Ciò,
però, è intralciato dalla nostra atavica pigrizia e incallito scetticismo che
non ci aiutano a pensare in grande ed osare insieme, puntando sulle nostre
forze e smetterla d’invocare, a gran voce, la tabula rasa per le cose che non
ci piacciono e la forca per le persone che ci sono antipatiche. Dall’Unita
d’Italia in poi, il limite maggiore delle scelte urbanistiche e degli
interventi edilizi pubblici e privati è costituito da un atteggiamento
oscillante, a fasi alterne, tra l’incertezza, la paura paralizzante, e la
frenetica spericolatezza del nuovo per il nuovo. L’accettazione delle nostre proposte,
la loro realizzazione, avrebbe un effetto virale per avviare al meglio, i
lavori di restauro conservativo e di riuso per funzioni diverse, nella Città
Vecchia, nel Borgo, nell’ Arsenale e nei compendi industriali, civili e
militari, dismessi. Riuscire à accùnzarə ‘nà pignatə
uscita dalla fornace già crepindàtə, ci costringerà a essere
più riflessivi, a toglierci di dosso la cronica apatia, a colmare i ritardi,
a eliminare le incongruità. Necessita una presa di coscienza collettiva,
assunzione di responsabilità ed osare di andare, anche, contro corrente, per passare,
in spirito glocal, dalla cronaca nella storia. Per meglio definire la proposta
progettuale sarebbe utile poter fare un sopralluogo e disporre degli elaborati
della progettazione in versione digitale.
Signor Sindaco, non è più tempo di attardarsi a
piangerci addosso, sul latte versato, aspettare che siano gli altri a levarci
le patate dal fuoco, mentre riteniamo giunto quello di rimboccarsi le maniche,
metterci la faccia, impegnarsi con generosità e risolutezza per riflettere
sia su alcune cose fatte culturalmente superate o smagliate sia su quelle
avanzate e di qualità che avremmo potuto realizzare ma che, inopinatamente, non
abbiamo portato in porto: correggere le pecche delle prime e ripescare le
secondi. Signor Sindaco, speriamo che, alla fine, con questa trucchelesciàtə,
con l’impegno Suo e della Municipalità, si riesca: a rendere agibili e fruibili
i locali collocati sotto Corso ai Due Mari; fondere, sia pure, dopo 50 anni, il
fuso di Franchina; a far attraversare il guado, con buona pace di chi” ‘a
petrə ‘a mènə sèmbə gnòrə”, al tartarugaio con
l’ausilio dell’Arte e così ammirare dal suo terrazzo-balconata, l’Anello
di San Cataldo e tornare a vedere giocare una partita di Livoria.
Trattasi di una ascosa sfida su più fronti fra loro interconnessi, che per
essere accettata e superata, ci deve vedere –in paranzə- tutti
impegnati. Signor Sindaco, non è il Muraglione dell’Arsenale Militare
che va demolito ma quello invisibile che attanaglia tutta la
città: un Muraglione, costruito sulla diffidenza, incomprensione,
sfiducia, pavidità; intriso di cinismo, egoismo e menefreghismo;
sostenuto da interessi meschini, limitati nello spazio e nel tempo; investito,
di tanto in tanto, da velleitarie ed improvvise
folate di vento che invece di abbatterlo per liberarci dalla sua stretta, si
rivelano solo azioni contro qualcosa per colpire qualcuno. Ed è
questo il Muraglione che, senza se e senza ma, sullèttə
sullèttə, va abbattuto.
In attesa di riscontro Le inviamo cordiali
saluti.
I proponenti: Enzo Ferrara, Michele
Pastore, Enzo Giase, Pino Conte, Fabio Millarte, Cosimo Dellisanti, Pina La
Vecchia, Pino Cosmai, Angelo Candelli, Giuseppe Albenzio, Mino Orlando,
Benedetto Lazzaro, Franco Silvestri, Vittorio Labriola, Angelo Palomba, Giorgio
Vitale, Guglielmo De Feis, Vincenzo Attolino , Vanna Bonivento, Sabrina Del
Piano, Giovanni Cristoforo, Stefano Ripoli, Candida Fasano, Marco D’Errico,
Salvatore Lippo, Simona Soloperto, Ilaria Carrieri, Roberto Millarte, Teresa
Bosco, Vittorio Mandese, Nicola Palagiano, Vincenzo Giliberti, Moniga Gatti,
Arcangelo Santamato, Massimo Perrini, Alessandro Termite, Antonietta Latanza, Angelo
Taina, Filippo Di Lorenzo, Francesco Buzzerio, Gregorio Digiacomo, Carmine
Chiarelli, Patrizia Fersurella, Giovanni Colomba, Enzo Ruta, Martino
Cristofaro, Pasquale Ricci, Walter Guarini, Pino Benedetto, Ester Romanelli, Alessandro
Ripoli, Domenico Di Cuia, Patrizia Russo, Giacomo Guarini, Maria Gianfreda,
Andrea Lazzaro, Emilio Mele, Pietro Fanigliulo, Marcello D’Addato, Raffaella
Portulano, Maria Valentina De Palma, Salvatore De Luca, Luigi Costantini, Luca
Ciriola, Giorgio Carnevale, Lorita Claudia Pacifico, Paolo Castronovi, Mario
Alessi, Vincenzo Adduci, Emanuela Carucci, Lorenzo Benedetto.