Raccontando Pierfranco Bruni a 40 anni dalla prima
pubblicazione:
Un poeta tra Ulisse e la spiritualità sciamanica
di Gianni Mazzei
“Ciò che è onticamente più
vicino e noto,è ontologicamente più lontano”(Heidegger in “Essere e
tempo”):l’arte si nutre di distanza, di stacco sensibile e chiarezza
intellettuale.
Pierfranco Bruni nella sua
poetica pone chiaramente tale assunto, con la stessa densità e lungimiranza del
Napoleone hegeliano che, dopo la battaglia vittoriosa di Jena, dall’alto della
collina,sul suo cavallo, domina lo spazio, lui “occhio del mondo”( la stessa
definizione che poi dell’arte darà Schopenhauer):” a quest’ora/ (in paese)/ il
crepuscolo/ha tinteggiato /le colline/ da qui /misuro/le distanze”.
Sono versi rivelatori sia per
lo stacco spaziale tra il presupposto(le colline) e poi la consapevolezza e la
funzione di misurare le distanze; sia perché è la luce del crepuscolo( una luce
mediterranea,non accecante e cinica) a creare la varietà del paesaggio,la loro
individualità e quindi le distanze tra esse e in rapporto al punto di
osservazione,il poeta; sia infine per quel “mensura” che ricorda la prima
affermazione della centralità dell’uomo, con Protagora “l’uomo è misura di
tutte le cose”.
E come il filosofo greco, il
poeta Pierfranco, oltre al rapporto dinamico e mai certo di chi misura e le
cose misurate, pone la metodologia di tale operazione, partendo da se stesso
come uomo( gli amori,le sconfitte,) per allargarsi al paese( lui che si
considera un paese in fuga) fino all’orizzonte ultimo della storia e del mito,
che accomuna quotidianità e momenti sublimi, nella sezione “viaggioisola”. E né
dimentica la prima fondamentale distanza che si ha tra il fluire della vita nel
tempo e la scrittura,le parole che, cristallizzando della vita i succhi come se
la si perda, paradossalmente,facendola uscire dal contingente, la consegnano
all’eternità. Nel “ Il graffio della sera” è enunciata,con immagini trasparenti
,tale poetica tramite i diversi sensi della parola (e nel ritmo veloce è un
riandare al concetto stilnovistico di Cavalcanti di “parole alate”): le parole
che si danno appuntamento,parole che si tramutano in silenzio per durare,parole
dimenticate,gioco delle parole,parole che ricompongono sentimenti o che sono
illusione di vita,che nascondono,che tradiscono e angosciano,che sono finte,che
consumano la vita,che sfumano nel buio,che danzano,che sfuggono,che non si
dicono e non dimenticano.
Sono le parole che vivono nel
dialogo dell’amore,tra tradimenti e promesse, che dicono di sogni e di albe,come
di ritorni e partenze, che hanno la dolcezza dello sguardo e la rapacità delle
mani sul pube: è singolare come in Pierfranco Bruni la tramatura delle parole
ridisegni,sottraendola al quotidiano e ad ogni storia singola per salvare e
farla diventare paradigma di ogni storia, la vita,in quel rapporto salvifico
tra un io e un tu( attribuendo al tu ogni possibile valenza: se stesso,la
natura,la donna,l’infinito,il sogno) come appare nella poesia “Quando si è in
due” allorché sostiene che “ci si dimentica/persino di morire”.
E,infine,le parole che
inventano coraggio. E’ un coraggio nuovo nel poeta,che attinge all’impegno
sociale e alla funzione civile della stessa poesia.
Certo, nel passato Bruni ha
giustamente polemizzato (sostenuto anche da chi scrive in un articolo apparso
sul giornale diretto da Grisolia) con Piromalli circa l’assioma: impegno
politico= grande poesia ed arte.
L’arte se profetizza un mondo
come dice kandiskji non ha però elementi concreti,né volontà,né è nella sua
natura cambiarlo: ciò appartiene alla politica,ad altri ambiti non certo alla
poesia.
Epperò, Pierfranco Bruni,pur
essendo nel giusto in questa posizione di neutralità dell’arte nei riguardi dei
problemi concreti della società, prende consapevolezza,forse anche per
l’impegno politico che ha vissuto a livello istituzionale, di una venatura di
impegno civile della sua poesia,nella sezione “Momenti” dove c’è la sofferenza
del Cristo sempre crocifisso dal potere e dove le piazze hanno perso spesso la
funzione dell’accoglienza e del dialogo dell’agorà o dei vicinato dei paesi
meridionali per diventare semplice esaltazione irrazionale e esercizio di
populismo.
C’è comunque l’orgoglio della
partecipazione di quel momento complesso e ambivalente,il 68, nell’affermazione
del principio della conversione,della metanoia religiosa, eppur così vicina al
laicissimo Marcuse di “la prima contestazione è migliorare se stessi”.
In questo suo
cammino,dunque,di uomo e di poeta, prima di arrivare ad un provvisorio
riappacificarsi,subito annullato” non mi sono ancora riappacificato con le
lontananze”, il primo gradino di questa triade hegeliano è il singolo,è se
stesso nei propri travagli,disagi,esaltazioni,sconfitte ed utopie,a volta
rientrando negli schemi,altre volte rompendo gli argini convenzionali, perché
“la salvezza è nel tradimento”, pur sapendo, o proprio per questo,che essa “è
sangue di sofferenza”. Questo primo gradino si aggruma nella densità di un
amore,travagliato,impastato di quotidiano,di sesso,ma anche di slanci mistici e
dolore per la volontaria rinuncia: il verso assume respiro,si tramuta in
narrazione, d’intonazione pavesiana, pur se in Pierfranco necessariamente manca
il velo mitico,giacchè è amore ancora che lotta,che scarnifica e non è
transitato nel ricordo inconcusso dell’impossibile.
Subentra poi lo slargarsi
orizzontale del paese che,verticalmente,unisce il passato,come humus e stimolo
di partenza, con il fare dell’oggi e la riflessione della maturità: in “Via
Carmelitani” il paese si anima in idillii connessi ad immagini stillanti
dolcezze o amabile ironia e già noti l’ambivalenza,il dissidio del poeta tra un
tradimento avvertito” ho tutto vissuto a metà” e l’orgoglio della estraneità
che esalta e che dà il senso del suo essere, nuovo Mosè “i poeti sono in
viaggio verso la terra promessa”( anche se come Mosè,il poeta non ha nessuna
intenzione di vederla,questa terra promessa,per non morire di
sazietà,servendogli solo il gusto di orizzontarsi e orizzontare gli altri verso
di essa).
Infine,questo provvisorio
confine, si dilata facendo un’operazione strana ed efficace: dopo il singolo
che spesso ha abbandonato i sogni per arrendersi alla vita, dopo il paese che
racconta un viaggio di nostalgia infinita, è il turno del tutto coinvolgente,il
mito,ma vissuto in una prospettiva rovesciata: è il mito del quotidiano,di
Elena che vive l’impotenza della solitudine,lei non più raggiante e capace di
muovere alla guerra; è il mito che s’incunea nella storia ,nella letteratura,in
un abbraccio universale di tutto ciò che l’umanità è ed ha prodotto .
E’ il mito inteso come
consapevolezza della nostra finitudine ma anche dell’orgoglio del riscatto
vivendo diversamente il contingente:”io sono altro o niente”.
Queste sfumature,di vita e di
impostazione estetica, Pierfranco Bruni le affida anche al significato
molteplice della parola”luna” che compare ,con grande suggestività, nel titolo
del libro.
Per ben 34 volte “luna”
compare all’interno dei versi del poeta,con aggettivazioni diverse per come
diversa è la vita e quindi ad indicarne l’insufficienza e la sua precarietà.
Solo nella poesia citata,che
ricompone l’equilibrio e l’armonia dissolta tra l’uomo e la divinità secondo
uno schema classico e romantico, “Quando si è in due” essa emerge solitaria
nella sua bellezza solare e verità,come rubino incomparabile,una luna comanche
,rossa che misteriosa osserva distese sconfinate, dune ondulate o occhi
intrepidi di volti guerrieri:si può vivere di lune.