Quando Ernest Hemingway aveva la mia età incontrò la fine.
mercoledì 18 marzo 2015
Di là dalla letteratura c’è la solitudine e la parola è il destino di morte
di Pierfranco Bruni
Quando Ernest Hemingway si uccise aveva la mia età. Ernest è nella mia vita da anni antichi. Quel “vecchio e il “mare” che lessi in quegli anni del liceo ora è diventato il libro del destino. Gli addii, le solitudini, la consapevolezza che la morte è nella vita. Sono i viaggi che hanno accomunato la mia scrittura a quella di Ernest. Sono passati anni dal giorno in cui lessi quelle pagine. Raccontando Ernest racconterei il mio rapporto con la sua “storia”…
Gli addii sono ciò che non capì Moravia. La solitudine e la morte sono i percorsi mai compresi dal vuoto letterario di Calvino e sempre catturati da Pavese. Ernest non è lo scrittore della leggerezza. È lo scrittore del labirinto soprattutto con il tocco della campana. Se si dovesse raccontare Ernest Hemingway, in un rapporto tra vita e letteratura, non basterebbe un solo romanzo di quelli che sono stati pubblicati in vita.
Romanzi che, a volte, richiamano il “diario” nel senso delle annotazioni del suo essere, del suo sentire e del suo vivere che si trasformano in immagini narranti. Ma che lasciano un tracciato in cui l’avventura, pur non essendo parossistica, diventa deflagrante in termini letterari. Non solo romanzi. Anche poesia. Le 88 poesie sono il segmento del legame morte vita e vita suicidio. Comunque in Hemingway resta nevralgico il rapporto tra vita e letteratura. E non è soltanto una chiave di lettura per comprendere, nei suoi virtuosismi e nei suoi vizi o nei suoi malesseri, l’uomo. E’ piuttosto un intreccio caratteriale che contraddistingue lo scrittore – uomo o l’uomo – scrittore.Hemingway sapeva benissimo che senza scrittura il suo stesso quotidiano non aveva ragione di esistere. Trasformava ogni passione (dall’amore al viaggio, dalla frenesia che lo colpiva in quella incostante inquietudine alla morte) in avventura dello scrivere. Pur tuttavia non si può considerare uno scrittore – diario ma uno scrittore – avventura. Ma anche un avventuriero che aggrediva il tempo fino a quando il tempo non lo aggredì.
Ebbene, 21 luglio 1899. Nasce nell’Illinois a Oak Park. La sua biografia lo fotografa senza mezzi termini come un avventuriero dunque. Ma non uso questo termine in funzione dispregiativa. Avventuriero qui sta come ricerca di un superamento che va oltre i limiti del destino. Incocciò la vita convinto di superarla in ogni aspetto, in ogni esplosione. Convinto di vincerla la vita attraverso l’avventura che si trasformava però nella scrittura. Scrivere, come già si diceva, era vivere. Ma scrivere era raccontare la vita nella storia e nel tempo.
Indubbiamente creò uno spaccato nella letteratura europea. Pavese definì il suo vivere letteratura – vita e i suoi codici stilistici ed esistenziali come “monellesche e impassibili birbanterie”. Anche se lo considerò un classico insieme ad altri scrittori come Lee Masters, Anderson, Faulkner.
Sopravvalutato più del dovuto o meno: non è questo che interessa. Ma Pavese, insieme a quella generazione compreso Vittorini, non ne fece un emblema certamente. Parlò della letteratura americana come ricerca e come conoscenza di un mondo altro rispetto alla formazione letteraria europea e italiana tanto da fargli dire che: “Ci si accorse, durante quegli anni di studio, che l’America non era un altro paese, un nuovo inizio della storia, ma soltanto il gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti”.
Era l’America sul piano culturale e storico che interessava più che i singoli scrittori anche se gli scrittori erano poi parte integrante di un modello soprattutto di vita. Non mancarono anche in quel clima le diffidenze, tanto che Italo Calvino il 13 novembre del 1954 su “Il Contemporaneo” dà una sfilzata di fioretto e riferendosi a Hemingway sottolinea: “quella sua vita e filosofia di vita di cruento turismo cominciò ad ispirarmi diffidenza e perfino avversione e disgusto”.
Giornalista, ideatore cinematografico, personaggio. Tre aspetti che si integrano. Perché ideatore cinematografico? Molti dei suoi romanzi sono un apripista per sceneggiature cinematografiche. Film che hanno segnato un particolare momento. Film tratti dai suoi romanzi. Il suo realismo non è magico ma ha sempre “i piedi per terra”. Ancora Italo Calvino dopo quelle sottolineature aggiunge in tono più pacato: “Hemingway scrive a secco, non sbava quasi mai, non gonfia, ha i piedi per terra”. Ma non lo capì, perché Calvino non capì mai il senso del destino dello scrittore destino. Pavese sì. Mentre Giansiro Ferrata nel 1956 in Il romanzo del Novecento afferma: “Perseguì la nuda eloquenza delle cose, il ritmo dei fatti, il rapporto con un sistema di cose carico di realtà quotidiane ma intime, organiche nella propria naturalezza: uno stile positivo, a suo modo”.
Il contatto con la realtà, per Hemingway, diventa indispensabile. Lo si avverte sin dai primi scritti. In quel romanzo, primo riferimento, del 1926 Fiesta e poi in Addio alle armi del 1929 passando per i racconti Uomini senza donne del 1927 e Torrenti di primavera del 1926. I testi di ricerca, dove si tenta una sperimentazioni stilistica ma anche di intreccio di contenuti, restano i primi lavori del 1923 e del 1954: Tre racconti e dieci poesie e Nel nostro tempo. Un itinerario che, comunque, finalizza già lo scrittore che ha bisogno dell’avventura per creare storia e personaggi. I quali personaggi costituiscono la coscienza della storia che si veste appunto di realismo.
In Hemingway la letteratura è nel dialogato che è parola. La parola è il parlato dei personaggi. Hemingway “Fascia le cose con un ripetuto contatto verbale”. Ritorna così il rapporto tra linguaggio e realtà. Ovvero tra la cronaca dei fatti, che si traduce in piccole storie e grandi passioni, e la capacità del linguaggio nell’offerta della comunicazione.
Quel “contatto verbale” di cui parla Mario Praz è un contatto con le cose del linguaggio il cui linguaggio è la comunicazione dei personaggi. Appunto Mario Praz su “La Stampa” del giugno del 1929, eravamo ai primi romanzi, scrive: “Il suo stile aderisce ai contorni delle cose con una fermezza che ha dell’impersonale. Se c’è uno stile obiettivo è il suo”. E prima aveva cesellato: “… si limita a ripetere i discorsi quasi seccamente, a delineare gli aspetti circostanti col minimo di parole possibile”.
Gli anni Trenta sono anni ricchi di impressionanti avventure alle quali si intrecciano i desideri della scrittura. Il giornalista e lo scrittore sembrano comunicare.
Molti soggetti giornalistici si decodificano nel narrato dei suoi racconti e dei suoi
romanzi. Nel romanzo c’è dunque la vita. La vita con la sua allegria e soprattutto con i suoi rischi. Ma scrivere e vivere sono costantemente un rischio. La vita va incontro alla morte. La scrittura va incontro al dissolvimento.
D’altronde un “avventuriero” come Hemingway non può aver timore dei rischi che gli si presentano. Ma la morte dell’uomo è come se fosse causata dal dissolvimento dello scrittore. Il non poter scrivere significa il non poter comunicare. E il non poter comunicare vuol dire il non saper esprimere emozioni, il non saper catturare passioni, il non poter amare con l’intensità degli amori.
Lo scrittore che calava nella scrittura tutta la sua tensione, questa tensione costituiva un gioco infinito tra il dare e l’avere. Il dare e l’avere della parola – vita era la vita che assorbiva la tentazione dell’eros che il raccontare sprigiona. Quel raccontare in cui l’avventura non conosce limiti e orizzonti.
Si pensi a Morte nel pomeriggio del 1932. Il soggetto di questo libro è la corrida. Significa il pericolo, il rischiare la vita, la morte, le tentazioni del vivere e del morire. E sono sempre tentazioni di passione. Si pensi ai racconti del 1933 Chi vince non prende nulla. Testi che non vanno segnalati certamente per la loro importanza letteraria ma per la loro fase sperimentale anche se nel testo del 1932 questo frammisto tra vita – rischio e morte sono ben collegate con la metafora – realtà della corrida.
Uno scrittore che usa il linguaggio per denudarsi completamente e in questi anni insieme al suo impegno pubblicistico intreccia il realismo letterario ad una denuncia della società americana. Va ricordato, a tal proposito, il volume Avere e non avere pubblicato nel 1937. L’anno seguente vede la luce la sua opera teatrale, la sola che abbia composto, dal titolo: La quinta colonna. Il romanzo che lo fa popolare e lo porta al successo è indubbiamente Per chi suona la campana edito nel 1939. La Spagna, la guerra civile, la rivoluzione. Ma non è un romanzo a tesi. E’ piuttosto un romanzo di avventura con tutte le categorie di quei romanzi di avventura nei quali il fascino dell’impresa è più esaltante di qualsiasi altra condizione esistenziale stessa.
I quarantanove racconti sono una sintesi di una dimensione creativa che raccoglie gli arcobaleni dello scrivere raccontando la vita, le storie e i personaggi. Questo testo racchiude i racconti pubblicati dal 1921 al 1938. Un’altra testimonianza che va letta come una perenne forma di sperimentazione. Un andare alla ricerca delle parole per mettere su le storie che sono già dentro il cuore. O un andare alla ricerca delle storie per raccordare le parole?
Hemingway stesso nella Prefazione a questo testo del 1938 parlando dello “strumento con cui scrivi” dirà: “… io preferisco averlo storto e spuntato, e sapere che ho dovuto affilarlo di nuovo sulla mola e ridargli la forma a martellate e renderlo tagliente con la pietra, e sapere che avevo qualcosa da scrivere, piuttosto che averlo lucido e splendente e non avere niente da dire, o lustro e ben oliato nel ripostiglio, ma in disuso”. Un passaggio che diventa fondamentale sia sul versante stilistico che su quello della condizione tematica. La voglia di scrivere era per Hemingway come la voglia di possedere, di amare, di vivere.
Dall’avventura all’intimismo. C’è una analisi di Nemo D’Agostino apparsa nel 1956 su “Belfagor”, quando aveva già pubblicato Di là dal fiume e tra gli alberi nel 1950 e nel 1952 Il vecchio e il mare, che dovrebbe far meditare. In questo stesso anno ottiene il premio Pulitzer e due anni dopo gli viene conferito il Nobel. Due testi, questi ultimi, che appartengono alla fase finale della sua stagione creativa ma che si spostano dai precedenti periodi.
Ma cosa dice D’Agostino? Così scrive: “Qualcosa ad un certo momento è accaduto ad Hemingway. La vita o il successo o il suo logorio interno e forse la caccia ai simboli che la critica muoveva intorno a lui hanno cambiato Hemingway in peggio”.
D’Agostino catechizza l’opera dello scrittore americano in due periodi. “Il primo ebbe il coraggio di affrontare il nulla, il che non sempre è un atteggiamento negativo. Il secondo, quello che ha scritto Morte nel pomeriggio e il resto (compreso il molto sopravvalutato Il vecchio e il mare) ha voluto celebrare l’affermazione. Come l’uomo stanco di affrontare un abisso si è ritirato nel mondo alquanto scontato del misticismo estetico e dei miti nebbiosi, per celebrarvi la bellezza dell’osso bianco nella coscia lacerata del torero, il moderno eroismo della disperazione, l’umanitarismo mistico della bellezza dell’amore e della morte”. Una sollevazione di natura critico – letteraria che va ad incidere su tutta l’opera di Hemingway. Certo, ci sono situazioni e condizioni letterarie che purtroppo si lasciano pesare proprio in riferimento a quel rapporto a cui si accennava: letteratura – vita. Ma ciò non dovrebbe toccare la sfera puramente letteraria.
Ci sono romanzi che sono stati, certamente, sopravvalutati ma ce ne sono altri che andrebbero chiaramente riletti magari con un metro di comparazione critica che esula da impostazioni manichee. Hemingway, nel bene e nel male, resta sì un personaggio ma resta sostanzialmente uno scrittore.Uno scrittore che, volente o nolente, si è costantemente confrontato con la vita ma soprattutto con la morte. Il suo suicidio, se lo si va a valutare sia sul piano letterario che esistenziale, è il suicidio di un personaggio che sapeva di indossare una maschera.
Lo scrittore, il più delle volte, è una maschera. Una maschera tragica come qualcuno direbbe. Una maschera ironica. Una maschera che maschera l’indefinibile o l’inverosimile ma dietro ognuna di queste maschere ci dono le debolezze, le angosce, il “logorio” dell’uomo che affronta la tragedia del vivere.
La sua maschera era la morte. Una morte che nascondeva ma che poi ha fatto esplodere all’improvviso in un giorno di luglio del 1961. Si suicida e il suicidio, per Hemingway, sembra essere l’estremo rimedio per difendere il personaggio e difendendo il personaggio cerca di salvare lo scrittore.
Tra i suoi scritti postumi vanno ricordati Festa mobile e Isole nella corrente. Di questi giorni è Vero all’alba. Di questi tre libri quello che ha una maggiore venatura poetica è Festa mobile pubblicato nel 1964. Lo considero, nonostante la incompiutezza, un romanzo fresco. Un romanzo che lascia trasparire un’agilità di pensiero, un ricordare che si fa sogno, un recuperare, anche attraverso forme simboliche. Continua ad accompagnarmi. La sua scrittura. Il suo vecchio che ha bisogno del mare ma anche le sue poesie. Continua ad essere in me. La sua solitudine, la sua morte, la sua dissolvenza.
Una memoria che non è quella giornalistica ma profondamente letteraria. Si respira la Parigi dei bei tempi quando quei tempi erano vissuti con la giovinezza e la vita era una festa. Appunto una festa mobile. Quella festa fatta di incontri, di bevute, di donne, di trasgressioni.Parigi e giovinezza sono una meteora nel cielo dello scrittore. Che, dico nel cielo dell’uomo – scrittore. Ecco perché tutto è una festa. Ed essendo una festa, la vita, è mobile. Nonostante tutto è il romanzo scritto da uno scrittore che sa che il mestiere dello scrivere è anche saper ricordare e afferrare il ricordo per imporlo come linguaggio.
In una intervista ad Hemingway il cui tema dominante è l’arte di scrivere e narrare, curata da George Plimpton (ora in una nuova edizione de I quarantanove racconti, editi da Einaudi la quale rimanda alla fonte originaria) si legge: “Con quel che ci è accaduto, quel che succede, quel che conosciamo e quel che non possiamo conoscere, inventiamo un qualcosa che non è una semplice rappresentazione ma una creazione totalmente nuova e più reale di qualsiasi cosa reale ed esistente, e se la rendiamo viva e il risultato è buono, diventa immortale. Ecco perché ci ritroviamo a scrivere, senza altre ragioni di cui siamo consapevoli. Ma chissà quanti altri motivi ci sono e non lo sappiamo”.
Scrivere è raccogliere, dunque, la fantasia che non ha motivazioni ma che diventa mistero e forse destino. Ancora la passione, la tentazione, la sensazione, l’eros, l’andare e tornare: da Cuba alla Spagna, da Venezia a Parigi. Un viaggio nella letteratura dei luoghi delle metafore e dei personaggi che si raccontano da soli.
Non so se sia stato un “grande” scrittore. Hemingway. Forse per alcuni libri non lo è stato. Per altri, forse sì. Ma smettiamola di riproporre i soliti scritti. Quelli cosiddetti famosi e popolari. Rileggiamo, invece, Festa mobile. Chissà se ripartendo da questo incompiuto si potranno afferrare quelle realtà – memoria che sono i segreti di quella festa che è appunto la vita e che Hemingway ha trasformato in avventura. L’avventura è il cerchio del destino. Come in Pavese. Come in Antonia Pozzi, come in quel viaggio di una letteratura che non svela la descrizione, ma si radica nel senso di morte. La letteratura porta il sottosuolo nella propria anima e soltanto il Cristo in Croce può dare voce. Non è riuscito a schiodarsi quel Cristo per Ernest. O la Pietra è rimasta bloccata sulla ferita della roccia. Io ed Ernest. Forse un romanzo. Ma tutto può essere il nulla del romanzo quando la solitudine incontra la morte sul fiume o sul mare e quando si va alla ricerca dei porti i porti sono viaggi o sono luoghi in partenza. Così per Ernest.
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