La morte di Gustavo Selva
scava nella mia storia. Nella mia generazione. Nei miei anni universitari e anche
dopo. Era nato nel 1926 a Imola. È morto a Terni il 16 marzo. Ero amico di
Gustavo Selva. Eravamo stati per anni i “dialettici” di un cultura che poggiava
le sue basi nel mondo cattolico attraverso la centralità della discussione di
Aldo Moro.
Giornalista, prima di tutto,
perché nella notizia costruiva la sua discussione che poneva interrogativi
nelle lunghe passeggiate in una Roma che non è più la Roma di quegli anni. Ebbi modo di conoscerlo grazie a Francesco Grisi. Entrambi democristiani
ed entrambi cofondatori di quel progetto, insieme a Tatarella, a Fisichella e a
chi scrive, che legava cultura e politica. Ovvero Alleanza Nazionale.
L’obiettivo e spesso ne
discutevamo era quello di legare la visione tradizionalista morotea - sturziana,
non deve sembrare strano, con il pensiero pesante che doveva superare il
concetto di rivoluzione delle idee. Siamo rimasti convinti che le idee non sono
rivoluzione, ma sono portatrici di consapevolezza e di innovazione.
Più volte ebbi modo di
parlare con lui della questione Moro. Scrisse diversi libri. Così come ebbi
modo di confrontarmi con lui quando io pubblicai i miei tre romanzi - saggi su
Moro. La sua posizione non era per niente ideologica, piuttosto umanitaria e
saggia.
Certo, è stato l’uomo che
aveva profetizzato l’avanzata del comunismo e che pur perdendo nome, quel
comunismo, i comunisti sarebbero rimasti sotto altre maschere. Ma oltre il
giornalista, il saggista di una realpolitik, di una visione ampia e articolata
dell’Europa che doveva poter guardare al Mediterraneo ed essere Mediterraneo
resta, tra l’altro, l’uomo di cultura. Il letterato. Non l’anticomunista con il
quale si è disegnata una icona.
Anticomunista lo è stato, lo
è, lo sarà come lo saremo tutti quelli che hanno fatto parte di una cordata cristiana
ed eretico – cattolica, soprattutto durante il caso Moro, (l’ironia è tragica:
muore il giorno dell’anniversario della strage di Via Fani del 1978), ma
Gustavo Selva trovava nel linguaggio un processo ecumenico verso la
letteratura. Conosceva benissimo Petrarca.
Nel 2004 scrisse delle pagine
sublimi su un Petrarca europeista e cristiana proprio quando si chiedeva
all’Europa di rivendicare la sua eredità cristiana. Gustavo aveva preso come
riferimento proprio Petrarca. Lo considerava poeta ma anche intellettuale “agli
albori dell’età moderna”. Petrarca non l’antipolitico. Ma il cristiano che con
le sue dolce fresche e chiare acque raccoglieva la voce dell’umanità dell’uomo
moderno che entrava nella contemporanea. Una storia complessa ma vitale, forte,
pesante, metafisica. Una identità senza allegorie e mai leggerezza. Una Nazione
e mai un paese.
Da Moro a Petrarca. Un
percorso intorno al quale abbiamo disegnato anche il nostro viaggio culturale.
È andato via un politico, un giornalista, un uomo di cultura nella cui cultura
c’era la saggezza dei saperi. Un amico.