C’è sempre
un tempo che misura distanze. Le civiltà sono intrecci di etnie e i popoli sono
le espressioni di modelli antropologici. La cultura è la vera manifestazione di
una identità. Mentre le letterature sono il raccordo tra l’anima e l’essere dei
linguaggi che provengono da appartenenze.
Ci sono
cinque modi di raccontare la storia delle letteratura intrecciate alle etnie,
come si dovrebbe fare.
A.
con una visone
prettamente geopolitica.
B.
con una
interpretazione letteraria della storia di un cammino letterario complessivo.
C.
con le visioni
antropologiche che significano tradizioni usi costumi.
D.
con la lettura
politica, soprattutto per alcune Nazioni.
E.
con il viverci
dentro la geografia di una città, di un villaggio, di una comunità: queste
diventano insieme popolo e civiltà.
Il viaggio è
sempre incompiuto, sino a quando non si smette di indossare l’abito della
pazienza nel raccogliere testimonianze ed esperienze. Ma occorre sempre
conoscere anche per discutere di letteratura di romanzi di poesia.
Ho tanto
viaggiato tra i luoghi e l’immaginario che, a volte, mi diventa difficile
separare la realtà dal pensiero tra i percorsi dell’immaginario. E ogni volta
che ritorno, il ritorno non solo più ad Itaca ma nella civiltà, ovvero nella
mia, ci sono cumuli di giorni che si impaginano tra bellezze e bruttezze.
Spesso anche
in letteratura cerchiamo la bellezza. Ma non dobbiamo dimenticare che le
bruttezze sono espressioni di un popolo e, quindi, di una civiltà. Io che mi
considero Mediterraneo, e lo sono, invito a difendere i Mediterranei diffusi.
Le etnie sono culture diffuse ma anche confuse. Bisogna abitarle con il
coraggio delle distinzioni e delle separazioni.
Ogni storia
ha bisogno di esprimersi con la sua eredità etnica. La letteratura è una etnia
di uno scrittore che ha assorbito vissuti.
Roma è
tradizione greco – romana, ma è Occidente, nella sua complessità, pur con echi
arabi. Ma è Occidente perché è cristianità e cattolicesimo. Questo non
significa puntualizzare un dato religioso. Piuttosto culturale. La religiosità
intesa come fede è ben altro viaggio, anche iniziatico e devozionale.
La cultura
Occidentale è tradizione nella profezia. Ciò è tradizione di un Occidente che
non è assolutamente un fatto da legare alla religiosità del sacro. Roma è
Occidente sino a quando è rimasta Occidente.
Perché?
Perché ormai
non possiamo creare una cultura della accoglienza della accettazione del
bisticcio delle tolleranze delle incomprensioni tout court. Siamo e restiamo un
popolo meticciato, ma restiamo Occidente con la nostra tradizione.
La
letteratura deve necessariamente difendere questi elementi oltre la cattolicità
che diventa l’espressione del confondibile tra anima e corpo e
dell’inconfondibile tra spiritualità ed eros.
Il
Mediterraneo è dentro di noi. Il mondo dei Balcani è completamente distante da
un Occidente che è stato virgiliano, nei comportamenti e non nelle geografie.
Troia è Oriente ma è la fiamma il fuoco la distruzione e anche il tradimento.
Se Troia
brucia Itaca è un villaggio smarrito. Se Ulisse è mito Enea è profezia. Vado
oltre in una civiltà del pensiero che bisogna viverlo come metafisica del tempo
dello spazio dell’esistere.
La questione,
infatti, resta ancora una. Siamo dentro Omero o dentro Virgilio?
Il nostro
Occidente si dissolve proprio intorno a questa questione che si apre alla fuga
e al ritorno. Siamo l’attesa di Penelope e la furbizia di Ulisse e il
tradimento di Elena con la grecità del conflitto? O siamo la morte di Didone,
il viaggio nella tradizione di Enea e la civiltà latina che vive la profezia
dell’annuncio?
È vero che
Roma si è tratteggiata sulla via della Grecia, ma è anche vero che la Grecia è
la sintesi di un Mediterraneo spinto nel mondo asiatico e nei sottili richiami
ottomani. Mentre le fiamme di Troia sono la sconfitta di Ulisse, e non il
coraggio e la vittoria, mentre il coraggio di Enea vive gli Occidenti inviando
messaggi alla latinità che sarà.
La verità è
che non abbiamo ancora risolto il problema. E Dante continua a confondere le
impaginazioni tra la verità la salvezza e la condanna attraverso un processo
che resta teologico. Siamo con occhi che non osservano e con orecchi che
ascoltano non la propria coscienza, ma le voci dei vocabolari.
La
divisione, nonostante le ortodossie, i musulmani, gli ebrei, i cristiani e le
eresie, è ancora stretta tra Ulisse ed Enea. I viaggi di Paolo sono arrivati
dopo.
Se restiamo
ancorati all’attesa di Penelope e al viaggiante Ulisse restiamo dentro le
spaziature della grecità. Se invece i nostri porti ancorano le navi di Enea si
riscopre una tradizione tra Anchise e Ascanio nella tragicità di Didone.
Quale è la
differenza tra Elena e Didone?
Il punto è
anche qui. Siamo eredi di un mito che racconta, ma anche di una tragedia che
non ha ironia. Se Pirandello non avesse inventato il teatro dei Sei personaggi
staremmo ancora a credere nella verità unica. Se D’Annunzio non avesse parlato
della bellezza staremmo ancora a vivere la grammatica di una letteratura che
vive di realtà. Se Pavese non avesse siglato il destino di Leucò staremmo
ancora nel Romanticismo ideologico. Se Berto non avesse tagliato la leggerezza
staremmo ancora nella banalità marxista. E se Nietzsche non avesse imposto il
suo mondo sciamanico staremmo ancora a credere alla storia. Tutto il resto si
radica in alcuni principì tra metafisica e letteratura oltre la realtà
La
letteratura italiana vive in quei processi antropologici che sono espressione
di una civiltà che si manifesta in una visione profondamente etnica. Non c’è
etica nel linguaggio delle letteratura e neppure ragione. Ma mistero.
Ma il
problema ancora si pone. Ulisse ed Enea hanno ancora un senso. Ammesso che si
voglia capire l’intreccio tra Occidente ed Oriente e tra letteratura,
metafisica, vita e mito.