Scrive Maurice Blanchot: “Nella parola muore ciò che
dà vita alla parola; la parola è la vita di questa morte…”
Gli fa eco Edmond Jabès: “Il silenzio è il legame.”
E nondimeno viviamo questa morte così estranea al
nostro essere vivi qui e adesso con la consapevolezza struggente di
un’illusione che non vogliamo riconoscere. Ne abbiamo fortemente bisogno
perché le nostre certezze sostengono poco questo viaggio destinato a rivelare
il senso dei nostri tradimenti.
Si diventa poeti per un’esigenza di fedeltà a noi
stessi.
La poesia ci accoglie e ci difende dal fuoco di
ogni giorno, per usare una appropriata definizione del poeta messicano
Octavio Paz.
Ma ciò che la poesia accoglie e difende è comunque
lontano da noi, è la vita di una morte che un poeta come Pierfranco Bruni
conosce bene perché la sua poesia molto ha a che fare con la memoria, molto ha
a che fare con i ricordi, molto con l’assenza. Siamo a 40 anni dalla prima
pubblicazione di Pierfranco Bruni dal titolo “Ritagli di tempo” edita anche
allora da Pellegrini.
La parola che si rivolge a noi da questa sua poesia
così rarefatta, ci colpisce perché si tuffa continuamente in nulla di
esistenza ; ci colpisce per questo legame d’essenza e di assenza.
Ci colpisce per questo suo viaggio sorretto dal
calore dello sguardo. Lo sguardo di un Giano, che abbraccia sempre una duplice
e cruciale visione. Presente e passato si ritrovano in un solo respiro, muoiono
nella parola per richiamare appassionatamente dall’oscurità del perduto non una
resurrezione ma, per dirla ancora con Blanchot, questa polvere che impregna ma
che non si vede, questi colori che sono tracce e non luce.
Ma se vogliamo prestar fede a Blanchot e cioè che “la
parola agisce non come una forza ideale, ma come una potenza oscura, come un
incanto che stringe le cose, le rende realmente presenti fuori di sé”,
allora dobbiamo concludere che questa stessa parola può fare a meno del poeta
perché “esige di fare il proprio gioco senza colui che gli ha dato la forma.”
E anch’io che in questo momento sto soltanto rendendo
noto, in quanto lettore, il mio percorso sempre e comunque devastante
nell’opera, non faccio che impossessarmi dei luoghi della poesia. Luoghi
evanescenti ma così vicini ai luoghi fisici, così sapientemente predisposti
all’accoglienza.
Pierfranco Bruni è ben consapevole di questo e lo dice
in Viaggioisola:
“Non cercarmi /tra i rigagnoli del buio/Ho venduto
pioggia /ad ogni gesto della mano//Non cercarmi /tra i sogni e le parole/Io
/non sarò mai/dove tu /crederai di trovarmi”.
Pierfranco Bruni cerca nella sua poesia un luogo per
sé, inaccessibile al lettore, da salvare e che lo salvi.
Il ritmo della sua poesia è di una brevità indefinita.
C’è molto bianco intorno. Quasi un respiro di silenzio che è magia di un canto
trattenuto altrove.
Il silenzio è il legame.
Ancora con Jabès a ribadire una sua profonda linea di
fede.
La parola che si rivolge a noi dalle sue poesie
custodisce, dunque, nel silenzio l’anima delle cose, il volto degli assenti.
Volti disseminati/in questo eterno/crepuscolo di
piogge…
Nubi di carta e segni. Frammenti di sogni e di
speranza che si posano, silenziosamente, sulla pagina bianca. Pieghe di
sguardi, di sorrisi, di giorni. Echi di memorie ed altro ancora in una poesia
che vuole creare magiche atmosfere consone a quel luogo dell’anima del quale
parlavamo prima.
Solitudine e silenzio, dunque. Patto d’alleanza, da
rompere e rifare, come in un gioco. Perché, leggiamo che dietro ogni
silenzio/ c’è una voce. Perché questi volti di pietra/ vivi nella
memoria/ rubano crepuscoli// Siamo soli/mio vento/ mia terra/ mio sole/ le mie
mani sono coste d’argilla/ la mia voce pianto di cera.
Niente è reale in questo luogo privato della
poesia. La realtà si è consumata nelle partenze. Si è custodi della distanza
soprattutto per salvaguardare il ritorno.
Nella parola il paese si specchia in una memoria
diversa: la memoria come archivio del vissuto, ma anche come perdita del
vissuto, come traccia vuota di un accaduto che si è sottratto alla coscienza, è
scomparso nell’oblio.
Le
case, i tetti, i vicoli del paese. Ma anche il vento. E la certezza lacerante
che non c’è nessuna soluzione. Tutto è perduto e tutto continua ad esserci.
Paese
in cui la carne, come scrive Rimbaud, è ancora un frutto appeso sull’albero. O
il ruscello, che Mallarmé vuole poco profondo, è ancora nascosto nell’erba
fitta.
Paesi
che nella loro essenza si assomigliano. Perché appartengono alla pagina, al
libro. Perché sono vivi soltanto dentro chi li ha vissuti, in chi continua a
viverli in questa memoria diversa che non promette soluzione.
Ci
si imbatte spesso nei sogni nel mondo poetico di Pierfranco Bruni.
Ma
che cosa sono i sogni per lui? Non sono certo i sogni di Pessoa così pieni di
presenze oniriche, a volte anche inquietanti.
Ma
qualcosa di più intimo, di più quieto. Un sogno che accolga luoghi intemporali
in cui perpetuare la certezza degli anni ignari della loro sicura scomparsa,
ignari dei tradimenti.
Sogno
come musica dell’essenza. Come un lento scivolare lungo un silenzio
maestoso.
Sogni
che brulicano, sogni che si frantumano, sogni esasperati, sogni allegri
che giocano con il silenzio, sogni dimenticati, sogni incisi su carta velina,
sogni in fuga, sogni diversi…
Sogni
che scompaiono nella parola. Sogni che vivono nella parola. Parola che non
rincorre mai la verità. Parola che non rincorre mai l’idea di saziare l’anima
di chi scrive.
Pierfranco
Bruni sa che occorre mettere una parola accorta, parola frammentata, già detta
e da dirsi nel suo personale libro che accoglie tutti i libri .
Lo
sa perché ha circoscritto le sue età. Lo sa perché il ricordo è veramente l’ultima
nobiltà che ci resta.