C’è un D’Annunzio che
trova l’estetica del viaggio nella sua Francia “abitata” metaforicamente a
Napoli tra il popolare e il nobile
di Marilena Cavallo
La Francia e i luoghi di un
francesismo vissuto come estetica sono “abitazioni” metaforiche in Gabriele
D’Annunzio. La cultura italiana del Novecento ha una ricca eredità francese.
Forse più francese che tedesca o spagnola. Lo scrittore che ci conduce verso
questo luogo della poesia e della vita, dell’esistere e della fuga resta
Gabriele D’Annunzio.
D’Annunzio,
tutto sommato, ebbe anche una eleganza francese in quel suo sublime raccordo
tra la vita e la letteratura.
La Francia è nel suo essere
personaggio dell’estetica, ma c’è da dire che non si tratta soltanto di una
questione biografica. Non si tratta della sua permanenza in Francia per cinque
anni. Non si tratta dei suoi rapporti con il mondo culturale, con le donne, con
i luoghi. C’è sempre qualcosa di più in D’Annunzio. Ed è sempre un intrecciare
la vita all’estetica.
Soggiorna
tra Parigi e Arcachon e tra l’altro scrive e pubblica i versi inclusi in Merope
dedicati alla celebrazione della guerra Italo – turca, oltre alla tragedia in
versi la Parisina, composta nel 1912 e musicata da Pietro Mascagni.
D’Annunzio
ha sempre considerato la Francia non soltanto il Paese dello stile e dei
profumi nell’eleganza delle donne, ma quando l’Italia fascista strinse il patto
con la Germania, D’Annunzio, nel condannare questa sciagurata alleanza, aveva
consigliato Mussolini di stringere un accordo con la civiltà latina della
Francia, considerata l’unica Nazione con la quale l’Italia poteva confrontarsi
per storia e cultura.
Rimase
in Francia sino al 1915. Vi era giunto nel marzo del 1910.
Tradotto
con interesse in Francia, egli stesso scrive in francese e compone il Martirio
di San Sebastiano, musicato da Claude Debussy, in lingua d’oìl. Uno dei
romanzi che ha fatto tanto discutere la cultura francese degli inizi del ‘900 è
stato il romanzo Il fuoco. Romanzo, quasi delle conclusioni esistenziali
e letterarie di D’Annunzio, che è stato tradotto, con non poche difficoltà e
discussioni, da Georges Hérelle, il quale aveva già tradotto altre sue opere
come L’Intrus, L’Episcopo et Cie, Le triomphe de la mort, L’enfant de
volupté, Les viere aux roches.
Ma
intorno alla traduzione de Il fuoco che si apre una significativa
discussione sul legame tra testo originale e traduzione. Il fuoco è un
romanzo che presenta un articolato linguaggio nella sua forma anche sintattica,
in cui la liricità e il vocabolario, in alcune parti, di termini dialettali
costituiscono per il traduttore una interpretazione che ha bisogno di una
chiave di lettura che fa i conti con la visione estetica della parola
dannunziana.
Il
linguaggio trasformato nel sublime e nell’estasi di segno prettamente dannunziano
ben si addice ad un confronto con la letteratura francese che accoglie
benevolmente la presenza di una grande scrittore come D’Annunzio, tanto da far
scrivere a Marcel Proust in una lettera indirizzata a Fernand Gregh, datata 3
dicembre 1901, che D’Annunzio è un “grande scrittore” e aveva molto apprezzato
le traduzioni.
È Il
fuoco che fa discutere. Sostanzialmente si tratta del suo penultimo
romanzo, che prima di essere tradotto in volume, vede la pubblicazione, a
puntate, sulle pagine della “Revue de Paris” dal 1 maggio al 15 luglio del 1900. in Italia, infatti, aveva visto la luce proprio nel 1900.
Perché
Il fuoco si presta ad una discussione proprio sul piano della traduzione
intavolando una vivace discussione con il suo traduttore Georges Hérelle (1848
– 1935)? Lo si è già accennato. Ma occorre ribadire che questo romanzo è il
romanzo più vissuto da D’Annunzio, nel quale si racconta la straziante storia
d’amore con Eleonora Duse.
La Duse era ben conosciuta
in Francia. Poi perché D’Annunzio sosteneva la intraducibilità dei termini
dialettali e la completa fedeltà della trasposizione lirica del romanzo e su
questo insisteva sul fatto che bisognava rispettare, senza alcuna libera
interpretazione linguistica, il senso lirico del linguaggio attraverso una vera
e propria “filosofia del tradurre”.
Un
senso lirico che doveva mantenere la piacevolezza della scrittura che doveva
unificarsi con la piacevolezza della lettura, oltre al fatto di restare fedeli
ai nome dei personaggi. Ovvero i personaggi del romanzo non dovevano
assolutamente mutare i loro nomi nella traduzione. Una richiesta di completa
fedeltà al testo. Chiedeva il rispetto della impostazione lirica ma anche il
rispetto della lingua italiana.
Con
la Francia, comunque, giuntovi, come ebbe a dire, in “volontario esilio”, ma
in realtà perseguitato e inseguito dai creditori con i quali aveva accumulato
incendi debiti, intrattenne ottimi rapporti. Ma nella Francia di D’Annunzio c’è
l’ascoltare i salotti della Serao, di una Napoli “viziosa” ed elegante,
popolare e nobile. Quella Francia è come se fosse una metafora del bello nella
Napoli che, per D’Annunzio, non ha mai perso il senso dell’estetica.
La Francia e Napoli nella
vita di D’Annunzio sono chiavi di lettura da ripensare.
Oltre
i rapporti si potrebbero analizzare i percorsi letterari successivi alla
permanenza di D’Annunzio in Francia. Nei suoi romanzi e nella sua poesia ci
sono intrecci e “correlazioni” che rimandano a quell’Invito al viaggio che è
vitale nel linguaggio dannunziano.