PIERFRANCO BRUNI. IN
QUATTRO DECENNI DI PUBBLICAZIONI: PERCORSO ALL’INTERNO DELLA POESIA DI
PIERFRANCO BRUNI
di Angela Lo Passo
Il custode
Permettere alla memoria di vivere di vita
propria non lascia altra possibilità se non quella di desiderare il ritorno ad
una condizione perduta. Utilizzare la mancanza, l’assenza del passato come
presente facilita al contrario la reale possibilità del ritorno, non
indifferente, non frutto di un percorso circolare, ma disimmetrico al punto di
partenza e ricco di risvolti inaspettati.
Non sorprende allora che lo scrittore
Pierfranco Bruni concentri tutto se stesso nel recupero incessante e continuo
della ricostruzione del proprio passato anzi nella ricerca del senso che solo
lo scorrere del tempo ha fatto diventare passato.
Per cui appare coerente e illuminante la
definizione della sua dimensione di custode. Il custode in realtà
conserva e protegge ciò che non gli appartiene, a cui attribuisce però un
valore, non tanto legato all’oggetto in sé ma ai suoi risvolti storici,
sociali, e soprattutto simbolici. Infatti il tempo attutisce da un lato gli
aspetti più immediati, il significato denotativo, e accresce nel contempo il
significato connotativo, quello più segreto e misterioso che amplifica il
letterale e lo trasforma appunto in simbolico. Un processo ulteriore e più
complesso è però rappresentato dalla visione allegorica, che immette l’oggetto
in un processo di pensiero, lo collega ad altro, gli conferisce nuove
possibilità d’interpretazione, lo avvicina al metacognitivo, al di là
dell’apparenza e al di là dell’essenza, lo rende parola suono attributo
senzasostantivo, sequenza di effetti senza causa. Il valore allora non
risiede nell’oggetto ma in chi lo custodisce: il custode diventa guida,
interprete dell’oggetto divenuto memoria, collegato all’insieme di eventi che
hanno cratterizzato il suo farsi vita.
Pierfranco Bruni è custode nel senso più
universale, mediatore tra l’esistenza e il tempo, tra ciò che è stato e ciò che
rimane nelle cose, nelle persone, ma anche in sé.
L’ossimoro vitale
Il sé del soggetto e il sé dell’oggetto a
cui il legame della memoria conferisce una prospettiva ed un’eterorealtà,
l’altro che scalpita, l’altro che resiste al gelo del tempo, l’altro che sfugge
all’analisi ed è già sintesi, l’altro che è in tutti ed in ognuno, più vero di
ciò che appare più eterno della volontà.
L’aporia per cui il caldo può coesistere
con il freddo, l’assenza con la presenza, l’insé con il fuoridasé non è
una forzatura dei poeti, un modo originale per caratterizzarsi come interpreti
del diverso, dell’eccentrico, ma è un processo mentale proficuo e logico che
connette più piani e li pone sullo stesso livello. Infatti la perfezione non
risiede nell’equilibrio stabile (noi diremmo statico), che non genera cambiamento,
ma nell’equilibrio instabile (noi diremmo dinamico), effetto del movimento che
genera altro movimento.
Questo vivace e vivificante
incontro/scontro degli opposti, l’ossimoro vitale, è la base del
processo della memoria che il custode della distanza attua nel presente,
rimanendo protagonista del passato e non divenendone vittima, come lo stesso
titolo della raccolta, Fuoco di lune, scrigno del suo vissuto,
chiarisce, ma non determina.
In realtà tutto coesiste e si sovrappone al
tentativo di frenare la malinconia della lontananza. “Ogni gesto ha una/
memoria”, ricorda lo scrittore, ma “Gesti inconsueti/ seppelliscono memorie”:
ogni atto conserva in sé altri atti, altre situazioni in cui il tempo si
perpetua e che non si annulla nella ripetitività, ma al contrario si amplifica.
La malinconia sta nel desiderio che ciò riavvenga, che si riproponga la magia
della memoria, che tutto riprenda vita.
“Non sappiamo più/ se fingere/ o barattare/
le ore/ oppure/ custodire/ il pianto/ che ci resta/ o l’attesa/ del presente”.
La memoria del sacrificio
Quando il filo della memoria s’interrompe
non basta la malinconia a mantenere un legame se pur fragile con il passato,
occorre un atto più coraggioso, una presa di coscienza reale e profonda che
possa sublimare l’assenza e questo non è solo appannaggio della sfera religiosa
ma anche laica, dell’uomo come universale nel particolare e viceversa per cui è
valido per tutti il riferimento ancestrale al simbolo, all’uomo che tenta il
ritorno e che sa di poter perdere parte di sé nella piena consapevolezza che la
conoscenza comporta anche dei rischi: “Ulisse/ si è ormai/ abituato/ al
naufragio” dice Pierfranco Bruni, il fallimento è quindi connaturato con la
natura umana che cerca in un simbolo più alto il senso della perdita e non solo
un riferimento, poiché irraggiungibile e apparentemente indifferente: “I miei
occhi versano/ singhiozzi/ e i Cieli restano immobili/ Cristo è un relitto/
lontano dal mio sgomento”.
Il sacrificio può apparire inutile, la
sofferenza una punizione e il rimpianto non si carica che del senso del vuoto:
“Le lune del mio Calvario/ piangono i giorni” e il poeta dice ancora in un
altro passaggio: “Il mio vecchio Cristo/ urta/ i tentacoli della morte” .
Perché il poeta è smarrito, perché non
ritrova il senso del suo sacrificio, dell’assenza, dell’abbandono di un passato
non rivissuto nel presente, di una possibile anomalia temporale che non gli
restituisce il dono della memoria? Il sacrificio non è giunto al suo culmine,
la sofferenza è fine a se stessa e non permette la sublimazione. Perché tutto
si ricomponga occorrerebbe un salto verso l’infinito, verso la vera assenza che
rilascia all’anima la possibilità di trovare la strada senza condizionamenti,
nella pura scoperta dell’autenticità: “Dammi/ Signore/ il coraggio/
d’incontrarmi”…”Signore/ parlami ancora/ del Tuo viaggio/ Ti ascolterò/ Sei la
luce/ e la speranza/ in Te/ c’è il sogno”. Non è un vago desiderio di pace, non
è una sterile ricerca di appagamento ma un ritrovato sogno dopo la sublimazione
del sacrificio. Da qui l’identità con il vecchio Cristo, il Cristo della
memoria.
Lo sforzo di ritrovare il sacrificio
Il sacrificio è un traguardo, la meta del
percorso, del viaggio che spesso Pierfranco Bruni cita e su cui si sofferma non
come semplice metafora della vita, sarebbe banale affermarlo, ma come la
ricostruzione della memoria, l’analisi salvifica del mistero, la passione del
ritorno, anche se verso il silenzio: “Il paese è invecchiato/ tra i giorni/ e
l’attesa/ è un’ombra/ raccolta/ nel guscio/ della sera”..”il paese/ è toccato/
da una nuova solitudine”…”si decompone/ il giorno/ e il paese/ vive/ l’ultima/
bugia”…”da qui/ misuro/ le distanze”. Il viaggio quindi è misura del tempo, non
il contrario, esso ricompone scompone la memoria, ed anche se aleggia la paura
che tutto ritorni al nulla, l’io si oppone eroicamente alla disgregazione e
misura le distanze”Ho accettato/ l’attesa/ e ho raccolto/ nel cavo del cuore/
le notti/ e i nomi/ del mio viaggio”…”Raccolgo le ultime cose/ Il viaggio/ mi
cerca”…Ma se il viaggio consuma il tempo e non dà spazio alla memoria allora il
senso del vuoto, dell’inevitabileperdita non si trasforma in dolore ma in
indifferenza e rende inutile il sacrificio: “Il viaggio/ non ha/ alcun ritorno/
l’ho capito/ quando tutto/ era stato/ già scommesso”. E’ il ritorno la chiave
del senso, quando viene scaltramente rifiutata la partenza:”le partenze/ sono
ore/ rubate…”
Il ritorno non comporta una somma delle
cose perdute, di ciò che si è lasciato e non si è ritrovato, né procura solo
una sorta di raccoglimento che rinchiude l’io nella sterile prigione
della malinconia, è al contrario un bisogno di raccolta, di raccattare
ciò che è sfuggito al rimpianto, che è rimasto autenticamente fedele al
ricordo, sottraendosi alla falce plumbea del tempo: “chiudo il gioco/ delle
malinconie/ ricostruendo/ ricordi senza senso”, per cui il poeta aggiunge: ”Le
mie memorie/ restano/ l’ipotesi peggiore”. Senza la ricostruzione del
sacrificio non può esserci la sublimazione della sofferenza.
L’assenza/mancanza del sacrificio
La lontananza priva di memoria provoca
l’assenza di malinconia: “Questo enorme silenzio/ mi trova lontano/ ho voglia
di una malinconia rubata” .
Il ritorno non cancella il senso di
smarrimento senza che alla base non ci sia uno sforzo titanico del poeta ad
affrontare il tempo, a convertire il senso di solitudine nella dimensione della
ricerca. “Vado lontano/ sulla corda della luna/ a raccogliere/ gocce di tempo/
La mia solitudine/ è un gesto antico”.
Nell’immagine onnipresente della luna
sembra riflettersi il richiamo antico della poesia greca, riscoperta da
Leopardi, al cuore degli uomini quando si dava alla solitudine il valore della
certezza, dell’uomo che nasceemuore da solo: “La solitudine/ non è la
nebbia del giorno/ E’ la certezza/ di essere/ tutti/ distanti”.
Nella poesia di Pierfranco Bruni la luna
non solo partecipa, ma è l’archetipo della raccolta della memoria, della
rinuncia alla rassegnazione nella ricostruzione del sacrificio: “la luna mi
ricopre di gesti/ e il vento di crepuscoli e memorie”. Tutto è racchiuso nel
bisogno di riappropriarsi del tempo, anche se breve e fuggevole: “Il tempo
ormai/ cammina sul palmo della mano”.
Il binomio solitudine/spazio e
silenzio/tempo rinsalda il legame con il valore della memoria, che riporta
ancora una volta un’eco leopardiana.
Ora è il momento giusto per riconciliarsi
con le ore perdute dei gesti sfuggiti alla memoria, del senso che riapre la
possibilità di qualificare il ritorno: il sacrificio.
Infatti se “Nel tempo –peggiore-/ ho
assistito/ all’impeto/ delle sfide” ora è il tempo migliore per emettere un
grido liberatorio: “E’ valsa la pena partire/ Quando si ritorna/ ci si
ritrova”.
Il sacrificio della memoria
La fuga è finita ed anche l’isola dei
ricordi non è più così lontana ed ammantata di solitudine, se questa è presente
lo è in vista della scoperta che qualcos’altro vive oltre la sponda dei
desideri perduti, oltre l’assenza: “Se dovessimo perdere le ragioni del viaggio
non saremo più capaci di tornare” e “ Il viaggio/ ha una sua storia”. Diventa
chiara la percezione possibile del sacrificio ultimo, quello della memoria: se
fosse possibile impedire la dispersione del tempo, anche le età passate, il
senso delle cose perdute sarebbero rintracciabili nel presente senza la
prospettiva malinconica e funerea del passato.
Uccidere il ricordo, sacrificare la memoria
costituisce l’atto ultimo per dare spazio alla vita del cuore, all’anima
antica dell’uomo che rispetta il tempo e non ne ha paura. Il tempo non è più
una dimensione ma una percezione legata all’attimo, se solo si distoglie lo
sguardo e i volti riscoprono la bellezza dei gesti inaspettati, di un ghigno
tramutato in sorriso, dell’attesa divenuta presenza, del buio squarciato dalla luce,
la realtà riacquista il dono dell’eterno, del valore dell’età e non della sua
dispersione.
Ricomporre con la raccolta e uccidere
il senso del passato fatto di mancanza, di lontananza, di assenza.
Il sacrificio della memoria non comporta però
quello delle illusioni, il sogno permane mentre la solitudine invecchia e perde
la sua forza, che non permette di andare al di là: il ritorno va oltre, oltre
le tenebre della malinconia che uccide il sogno, in questo viaggio che ha
insegnato al poeta a diventare custode prezioso della forte appartenenza al
luogo.
La sua esperienza è universale perchè
simile ad altre in questa unica sinfonia di voci che celebra così il sacrificio
della memoria: “tutte le età/ un poco / si somigliano/ si distinguono/ solo/
per la loro fantasia/ o/ per la loro / tristezza/ tutte le età/ hanno memorie/
tutte le età/ si perdono/ lentamente/ fra gli spigoli/ della notte/ tutte/ le
età/ si perdono/ e ci perdono”.
In questo caso la perdita costituisce
prorio quel sacrificio della memoria che permette alla vita di vincere, alla
fine.