L’assurdo
di Ionesco e il gioco di Kafka nei romanzi di Dario Franceschini: dal
personaggio Sebastiano a Ignazio, dal notaio alla poesia delle acque d’argento
di Pierfranco Bruni
Forse il “gioco” o vincere il muro della realtà in letteratura può
essere una chiave di lettura per penetrare i romanzi di Dario Franceschini. Da “Mestieri immateriali di Sebastiano
Delgado” (2013, Bompiani) a “Daccapo” (2011) a ritornare indietro
nel raccontare di Dario Franceschini è un ripercorre i “generi” e le tramature
di una letteratura fatta di immaginario e di onirico sul filo di una linea che
è quella cara a Ionesco.
Il politico - scrittore e ora ministro. Non ci sono dubbi,
comunque, che il romanzo di Franceschini dal titolo spagnoleggiante o
sudamericano: “La follia improvvisa di Ignazio Rando” (2007) è un
romanzo dai filamenti onirici ed enigmatici. Come, d’altronde ho
considerato “Nelle vene quell’acqua d’argento” (2006), nel recensirlo a
suo tempo.
Una mite malinconia pervadeva il primo romanzo con sottolineatura
di forte metafora. Una enigmatica metafora attraversa questo Ignazio Rando.
“La follia improvvisa di Ignazio Rando” è certamente il romanzo
più bello che ho letto negli ultimi tre o quattro anni. La letteratura è un’emozione
chiamata non verità ma poesia, grazia, mistero, fantasia. Ebbene dobbiamo avere
il coraggio di sprigionare le tensioni esistenziali che vivono dentro di noi
soprattutto noi che il mestiere della letteratura lo pratichiamo non per gioco
e neppure per tirare la carretta di fine mese.
Il romanzo di Franceschini ha una freschezza borgesiana. Forse
intinta in una venatura kafkiana dove la storia scompare e rimane la
testimonianza del personaggio.
Il
personaggio che si fa destino e si aggrappa alla nostra anima come si è
aggrappata alla nostra anima il tempo che scorreva nelle vene dell’acqua
d’argento.
Ma
perché, caro Dario, “…in piedi si è già in mezzo al cielo”? Non darmi la
risposta. Non puoi darmela. Non cercarla. Lasciala al lettore. Ognuno di noi si
interrogherà a proprio piacimento. Ma tu lasciala sospesa tra il cielo e il
vento. Non è ragione la letteratura.
I
relativisti ci punzecchiano con la ragione scambiandola con il sentimento.
Vogliono dare un senso a tutto. Ma noi non cerchiamo un senso. Piuttosto un
orizzonte. Sì, un orizzonte come il tuo, il mio, il nostro Ignazio Rando. Il
resto non ha mancia. E siamo tutto in viaggio verso i mulini al vento perché
restiamo in fondo dei fantasmi o dei funamboli.
Come
nelle acque d’argento o in “Daccapo” (molto bello questo inciso: “In un piccolo vicolo laterale, due
bambine giocavano tra di loro fingendo di tirarsi una palla che non avevano.
Ridevano felici rincorrendola e lanciandola sempre più in alto. Poi si
bloccarono, coprendosi la bocca con la mano, come solo i più piccoli sanno fare
quando combinano un guaio...”) o in Sebastiano
Delgado. Ma resto imbrigliato tra le maglie del personaggio marqueziano che è
Ignazio.
Così:
“Ignazio camminava sul bordo del marciapiede cercando di cadere sulla strada.
Certo il sasso sulla spalla lo sbilanciava, per questo era più difficile stare
in equilibrio. Metteva i piedi l’uno davanti all’altro, lentamente, come
facevano u funamboli ed era bravo, perbacco”. Ma chi è Sebastiano Delgado?
Forse,
voglio cogliere questa provocazione, Ignazio Rando e Sebastiano Delgado vivono
un po’ dentro di noi. E vivono senza che noi ci accorgiamo della loro presenza.
Ma cosa è la presenza e l’assenza in letteratura.
Sono
un romanzi di uno scrittore che ha un sapere letterario sottile, ben
costruito, con delle luci poetiche che toccano l’anima e con una geografia che
scompare per lasciare proprio questa luce alla metafora.
Non
racconto le trame. Cerco di raccontare sensazioni. Sono quelle che mi ha
lasciato l’impatto con questi romanzi. Vedete che straordinaria immagine in
Ignazio: “Dalla finestra da cui proveniva il canto si affaccia una donna
bellissima. È lei che canta ma la sua voce è quella di un uomo. Noi continuiamo
a ballare e io cerco a ogni giro di vederla bene, aspettando la luce del giorno
che cresce. Poi la riconosco. Sei tu. Tu che canti con la mia voce”.
Immagini
che ci immettono nella ragnatela delle emozioni, nella follia di una parola che
si fa incanto. Superando sempre sia la storia che la ragione. Possono piacere o
meno queste mie considerazioni. Nessuno è obbligato ad accettarle. Ma vi posso
giurare, sotto il giuramento di uno scrittore che non fa il magistrato e
neppure il prelato, che “La follia improvvisa di Ignazio Rando” è proprio un
vero romanzo.
Così come il personaggio Sebastiano diventa un destino
nell’avventura. E poi c’è la follia. E in Sebastiano Delgado la follia diventa
solitudine. Il bisogno di risvegliarsi con una donna accanto. Le acque
d’argento sono gli echi della poesia nell’assurdo “Daccapo”.
Cosa sarebbe la letteratura senza la follia e senza il sentiero
delle solitudini di Sebastiano? Dario non trascurare la parola che si fa
emozione. Così in “Daccapo” l’assurdo vive tra le pagine, ma l’assurdo può
rischiare il vero. La storia di un notaio che ha avuto 52 figli e la trama del
romanzo non è un assurdo.
Potrebbe essere lo specchio di un immaginario che si fa sogno in
una notte o verità saputa mascherare anche davanti agli specchi di Oscar Wilde.
E poi in “Daccapo” c’è il De Andrè dell’ironia che recita: “Continuerai
a farti scegliere o finalmente sceglierai “. I quattro romanzi sono dentro
il mosaico narrativo di Franceschini e gli io narranti sono un solo percorso
narrante. Così è negli scrittori. “Mestieri
immateriali di Sebastiano Delgado”. Quell’immateriale diventa il vero metodo
metaforico di una scrittura giocata tutta sulla metafora. Come in una bella
frase del primo romanzo del 2006 citata nella mia recensione di quel tempo: “Aveva
sempre confuso il silenzio con il freddo”. Una metafora nel tempo delle assenze
- presenza.