Dobbiamo ripensare
alle culture dei beni culturali
Concordo con il
Ministro Franceschini sul legame cultura – economia
di Pierfranco Bruni
Ho
letto con interesse e attenzione l’indirizzo di saluto che il Ministro della Cultura
(abbrevio tutta la “dicitura” istituzionale) Dario Franceschini ha rivolto ai
dipendenti dello stesso Ministero, ma, sostanzialmente, credo che sia rivolto
a tutti gli italiani, che guardano con particolare sensibilità ai processi che
il patrimonio identitario di una Nazione (da quello archeologico, storico,
artistico, archivistico, a quello editoriale – biblioteconomico,
musicale, antropologico, demoantropologico) può rappresentare, soprattutto in
una temperie in cui gli sradicamenti valoriali creano vuoti nelle società e
negli uomini.
Sono
d’accordo con ciò che afferma. D’altronde nella mia lettera indirizzata proprio
a Franceschini, di qualche giorno fa, avevo cercato di toccare riferimenti che
diventano centrali nello sguardo di una politica culturale che deve essere
strettamente legata all’economia. Ovvero ad una politica sulla cultura
dell’identità, che significa, tra l’altro, focalizzare la centralità del
problema culturale sul rapporto identità – futuro.
In
una realtà come quella che viviamo, che è manifestamente attraversata dal
superamento della transizione cultura classica – scientificità degli eventi, se
il patrimonio storico (con storico voglio comprendere tutti i campi di cui si
occupa il Ministero in questione) di una Nazione non lo si utilizza come
strumento nel mercato delle economie sommerse, sul piano internazionale e non
solo europeo, non ha più, in questa civiltà dell’oltre modernismo e dell’oltre
attuale (non attualismo), ragione di esistere soprattutto in un rapporto con il
turismo.
Questo
significa rendere “mercato” le culture. La cultura, in senso lato come termine
concettuale e se si vuole nel gioco tra Gramsci e Gentile, in Italia ha una
velocità molto bassa rispetto allo stesso sviluppo produttivo che hanno altri
settori. Il problema è stato sempre quello di chiudere in una stanza ovattata
l’idea di cultura, e di conseguenza tutto ciò che definiamo bene culturale ha
avuto un cammino ridotto rispetto ad altri beni di consumo.
Partiamo
dall’idea che la cultura deve essere un bene di consumo, senza chiaramente
nulla cedere di ciò che sappiamo essere una eredità di una civiltà, e quindi
deve essere trattata come tale, ovvero come un prodotto. È certo che tutto ciò
che è visitabile, usufruibile, godibile appartiene ad un mercato in cui ha
senso se si lega a un processo economico basato, in questo caso, al turismo. Ma
il turismo non è solo bellezza, accoglienza, indotto… È anche una politica di
immagine sulla identità.
Per
fare questo, però, bisogna far uscire allo scoperto il modello ideologico che
finora ha accompagnato l’idea di bene culturale. In altri termini bisogna
creare non i presupposti, ma gli strumenti reali per trasformare la cultura dei
beni culturali in cultura per una attività produttiva. Soltanto così si potrà
considerare processo economico un bene culturale che è valorizzante. Non basta
valorizzare. Occorre una vera e propria visione economica applicata alla
cultura.
La
dimensione valoriale del bene culturale è ferma da decenni nel velluto di
un’ideologia che vuole che un pezzo archeologico debba essere intoccabile.
Rovescio il discorso. Bisogna fare in modo di toccarlo per renderlo
partecipativo e partecipante. Non è una metafora. Sostenevo che se una mostra,
o un museo, non porta introiti e l’investimento è superiore al ritorno
economico l’operazione è fallimentare. Non abbiamo più bisogno di manifestare
la nostra identità attraverso la cultura. Siamo colmi di identità anche se
dobbiamo continuare in una politica di tutela. Ora dobbiamo andare oltre.
Se
un museo non produce, sul piano direttamente economico, un gettito
proporzionalmente superiore agli investimenti di base bisogna ripensarlo sia
in termini culturali sia in un rapporto reale tra costi e benefici. Una Civiltà
esiste per le sue Culture. Ma in una società, come la nostra, non basta più
difendere soltanto una identità. Bisogna creare mercato attraverso gli
strumenti che hanno reso una Nazione culla di civiltà.
Lo
so che si tratta di un discorso dirompente. Ma se la cultura non entra nei
mercati delle culture internazionali non crea turismo, non provoca indotti, non
offre sviluppo. Se l’Italia vuole puntare ad uno sviluppo, anche attraverso le
culture, deve chiaramente ripensare l’ideologia del rapporto valorizzazione –
fruizione della cultura.
Siamo
in un Tempo Economico. Ci piaccia o meno. Anche la cultura deve essere
economia. Altrimenti le porte della malinconia neo-classica sono spalancate.
Concordo con Francescani sul fatto che dobbiamo ripensare alla cultura
guardando intelligentemente e sapientemente al turismo.
Mi
auguro che si riesca in questo progetto.