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Trasformare la cultura dei beni culturali in cultura per una attività produttiva.
giovedì 27 febbraio 2014

di Pierfranco Bruni




Dobbiamo ripensare alle culture dei beni culturali

Concordo con il Ministro Franceschini sul legame cultura – economia

di Pierfranco Bruni

Ho letto con interesse e attenzione l’indirizzo di saluto che il Ministro della Cultura (abbrevio tutta la “dicitura” istituzionale) Dario Franceschini ha rivolto ai dipendenti dello stesso Ministero, ma, sostanzialmente, credo che sia rivolto a tutti gli italiani, che guardano con particolare sensibilità ai processi che il patrimonio identitario di una Nazione (da quello archeologico, storico, artistico, archivistico, a quello editoriale – biblioteconomico, musicale, antropologico, demoantropologico) può rappresentare, soprattutto in una temperie in cui gli sradicamenti valoriali creano vuoti nelle società e negli uomini.

Sono d’accordo con ciò che afferma. D’altronde nella mia lettera indirizzata proprio a Franceschini, di qualche giorno fa, avevo cercato di toccare riferimenti che diventano centrali nello sguardo di una politica culturale che deve essere strettamente legata all’economia. Ovvero ad una politica sulla cultura dell’identità, che significa, tra l’altro, focalizzare la centralità del problema culturale sul rapporto identità – futuro.

In una realtà come quella che viviamo, che è manifestamente attraversata dal superamento della transizione cultura classica – scientificità degli eventi, se il patrimonio storico (con storico voglio comprendere tutti i campi di cui si occupa il Ministero in questione) di una Nazione non lo si utilizza come strumento nel mercato delle economie sommerse, sul piano internazionale e non solo europeo, non ha più, in questa civiltà dell’oltre modernismo e dell’oltre attuale (non attualismo), ragione di esistere soprattutto in un rapporto con il turismo.

Questo significa rendere “mercato” le culture. La cultura, in senso lato come termine concettuale e se si vuole nel gioco tra Gramsci e Gentile, in Italia ha una velocità molto bassa rispetto allo stesso sviluppo produttivo che hanno altri settori. Il problema è stato sempre quello di chiudere in una stanza ovattata l’idea di cultura, e di conseguenza tutto ciò che definiamo bene culturale ha avuto un cammino ridotto rispetto ad altri beni di consumo.

Partiamo dall’idea che la cultura deve essere un bene di consumo, senza chiaramente nulla cedere di ciò che sappiamo essere una eredità di una civiltà, e quindi deve essere trattata come tale, ovvero come un prodotto. È certo che tutto ciò che è visitabile, usufruibile, godibile appartiene ad un mercato in cui ha senso se si lega a un processo economico basato, in questo caso, al turismo. Ma il turismo non è solo bellezza, accoglienza, indotto… È anche una politica di immagine sulla identità.

Per fare questo, però, bisogna far uscire allo scoperto il modello ideologico che finora ha accompagnato l’idea di bene culturale. In altri termini bisogna creare non i presupposti, ma gli strumenti reali per trasformare la cultura dei beni culturali in cultura per una attività produttiva. Soltanto così si potrà considerare processo economico un bene culturale che è valorizzante. Non basta valorizzare. Occorre una vera e propria visione economica applicata alla cultura.

La dimensione valoriale del bene culturale è ferma da decenni nel velluto di un’ideologia che vuole che un pezzo archeologico debba essere intoccabile. Rovescio il discorso. Bisogna fare in modo di toccarlo per renderlo partecipativo e partecipante. Non è una metafora. Sostenevo che se una mostra, o un museo, non porta introiti e l’investimento è superiore al ritorno economico l’operazione è fallimentare. Non abbiamo più bisogno di manifestare la nostra identità attraverso la cultura. Siamo colmi di identità anche se dobbiamo continuare in una politica di tutela. Ora dobbiamo andare oltre.

Se un museo non produce, sul piano direttamente economico, un gettito proporzionalmente superiore agli investimenti di base bisogna ripensarlo sia in termini culturali sia in un rapporto reale tra costi e benefici. Una Civiltà esiste per le sue Culture. Ma in una società, come la nostra, non basta più difendere soltanto una identità. Bisogna creare mercato attraverso gli strumenti che hanno reso una Nazione culla di civiltà.

Lo so che si tratta di un discorso dirompente. Ma se la cultura non entra nei mercati delle culture internazionali non crea turismo, non provoca indotti, non offre sviluppo. Se l’Italia vuole puntare ad uno sviluppo, anche attraverso le culture, deve chiaramente ripensare l’ideologia del rapporto valorizzazione – fruizione della cultura.

Siamo in un Tempo Economico. Ci piaccia o meno. Anche la cultura deve essere economia. Altrimenti le porte della malinconia neo-classica sono spalancate. Concordo con Francescani sul fatto che dobbiamo ripensare alla cultura guardando intelligentemente e sapientemente al turismo.

Mi auguro che si riesca in questo progetto.




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