C’è
un legame, in politica come nella vita, tra vendetta e necessità di tollerare
che tocca il “bisogno” di agire, come manifestazione di sopravvivenza, e la
capacità della saggezza a farsi virtù. Un rapporto, quello tra saggezza e
virtù, ben definito da una visione che si focalizza nel concetto di metafisica.
Ovvero tra il valore di una filosofia (in politica in questo caso), che è altro
rispetto ai cortocircuiti della teologia, e l’impostazione storico –
spiritualista dei fatti e dei valori.
È
chiaro che la politica si muove intorno ai “Fatti” e ai “Valori”. I quali, a
volte, sono ben definiti e altre volte sono da ricreare e da ricontestualizzare
rispetto al tempo in cui si esercita la manifestazione dell’agire. Il Novecento
non è un secolo definito o definitivo rispetto ad altre epoche. È piuttosto un
secolo che raccoglie le sintesi della modernità, dell’attualità e della
contemporaneità.
Spesso
si giunge ad un Novecento, tra sintesi e prospettiva, portando come testimone a
– priori la figura e l’opera di Dante Alighieri. È una chiave di lettura che ha
campeggiato nelle diversità del pensiero e continua a percorrere sia il
cosiddetto pensiero “debole” che il pensiero “forte”.
Nel
Novecento Dante ha, certamente, una sua estremizzazione, ma anche un suo
epilogo, perché c’è una teologia che ha permeato sia la cultura che la
politica. Ma Dante, il destino ha sempre una sua doppiezza, si interrompe nel
momento in cui entra sulla scena un Manzoni che cerca di applicare la “morale”
ad ogni atteggiamento della vita.
Si
passa da una tesi di teologia della politica e della cultura, con Dante, ad una
dimensione della morale. Ma al centro c’è sempre una questione che riguarda
l’impatto con la religione. Da questo punto di vista è molto più moderno Dante
che Manzoni. Il conflitto tra Guelfi e Ghibellini è l’inizio di Machiavelli,
che si apre non ad una politica nuova, ma ad un’età nuova della politica. Con
Dante e l’investitura della cultura, come esercizio della teologia, si giunge
sino alla stagione illuminista.
Il
Settecento si arrovella, ideologicamente, intorno al concetto di rivoluzione
perché ancora porta dentro il proprio tessuto filosofico la conservazione
ereditata dal Barocco che recupera le radici di Federico e di Poliziano,
archiviando immediatamente il Rinascimento che cercherà di intagliarsi tra gli
spigoli del Novecento. Non si tratta di una questione di forme o di culture
acquisite e non elaborate. Ma di idee.
Il
Novecento è realmente il secolo delle idee della sintesi. Dante, dunque,
interrompe la sua cavalcata davanti a Manzoni, perché è Manzoni che applica,
rovesciandola, la tesi di Dante tra teologia e cultura e tra teologia e
politica attraverso uno specchio capovolto che è quello tra don Rodrigo, quindi
i Bravi, e l’ubbidienza ipocrita di don Abbondio. L’Ottocento non è il secolo
del coraggio, ma nell’Ottocento si creano le idee della restaurazione che
vengono, comunque, sconfitte e mandate in soffitta dalle motivazioni politiche
rivoluzionarie che arriveranno con la Prima Guerra Mondiale.
Dante
non è stato soltanto un poeta, ma un portatore di idee. Manzoni non è stato
soltanto uno scrittore dedito alle lettere. Sono due riferimenti nella
contrapposizione di un pensiero politico che ha filtrato dei modelli culturali.
Ma entrambi muoiono proprio nel momento in cui una classe di intellettuali
percepisce il valore della cultura come valenza politica. Penso a Pascoli, a
D’Annunzio, a Marinetti, ma anche all’equivoco Carducci. Nel momento in cui la
cultura diventa cultura interventista, oltre la teologia e oltre la morale, si
supera anche il concetto di vendetta, in quanto nella necessità della
tolleranza subentra il bisogno di comprendere i tempi nella storia, che si vive
grazie alla virtù che si apre alla ragione e alla saggezza che contratta con la
consapevolezza – comprensione.
Gli
Stati si realizzano legando la vendetta alla tolleranza e una Nazione si definisce
superando sia l’una che l’altra. Il Novecento ha ben depositato, oltre il
pensiero della ragione, sia la teologia che la morale ed ha posto in essere la
virtù e la saggezza.
Il
Novecento è, forse, il secolo più vicino a Machiavelli di tutti i precedenti.
Ha posto in un intreccio la filosofia con la politica. Anche durante il
Fascismo filosofia e politica sono stati alla base di una visione culturale ed
esistenziale della persona nella centralità di un umanesimo nuovo.
In
fondo il Novecento non ha fatto altro che rincorrere la necessità e il bisogno
di recuperare un umanesimo sia della persona sia della Nazione. La vendetta
come concetto a – priori non può instillarsi né nella virtù né nella saggezza e
tanto meno può fare da apripista alla ragione. È naturale che la sconfitta
della virtù è anche la caduta di una politica con dei radicamenti culturali.
Il
Novecento, essendo il secolo della sintesi (quindi non andrebbe definito né un
secolo breve né lungo e tanto meno di transizione), resta, in parte, tuttora
aperto a Dante, nel dialogo tra politica e cultura, ma lascia completamente nel
dormitorio Manzoni. È possibile una triangolarizzazione tra Dante, D’Annunzio e
la modernità. È impossibile chiarire, anche nei luoghi dell’esistenza
metafisica, un rapporto tra Manzoni D’Annunzio e l’attualità.
Il
Novecento, che inizia con l’antefatto della guerra di Libia e si focalizza
nell’interventismo collaborante tra politica e cultura, pur nella sua sintesi,
recupera la morte di Dante ma abbandona Manzoni. Qui entra in gioco
Machiavelli.
Credo
che Machiavelli resta la chiave interpretativa in una pagina che ha
posto, in modo dialogante, l’uomo come soggetto politico, nella sua
esistenzialità, e la filosofia come principio di un umanesimo anche della
storia oltre la sfida della vendetta. Ma tra politica e cultura la voce
accordante è nella giusta causa della comprensione della virtù.