I popoli immigranti: Abitare l’antropologia
dell’eredità vivendo la realtà
In un convegno sull’immigrazione che si svolgerà a
Mottola (Ta)
di Pierfranco Bruni
C’è
uno snodo centrale tra la politica di accoglienza e integrazione e le forme antropologiche
nei processi immigratori. Non si tratta di un dato che riguarda soltanto la
questione attuale. È una dimensione storica che va letta e interpretata nei
fenomeni che possono essere definiti etnici.
Ogni
popolo ha la sua matrice ereditaria che diventa il vero e proprio linguaggio
del volto e dello sguardo in un processo in cui l’antropologia della parola è
un indirizzo di comunicazione. I popoli immigrati diventano civiltà estesa nei
luoghi di accoglienza. Di questo argomento ne parleremo in un interessante
convegno a più voci che si svolgerà a Mottola (Taranto) venerdì 17 gennaio.
Da
questo punto di vista il fattore etnico (ovvero il fattore E) chiama in causa
una questione in cui il raccordo tra il concetto di meticciato intreccia
l’elemento migrante con il modello emigrante perché l’immigrato è prima di
tutto un emigrante che lascia la geografia autoctona, portandosela sempre in
quella sua metafisica dell’anima, per inserirsi nella comprensione di una
geografia fisica ed esistenziale, sociale e politica “altra”.
In
Italia si è sempre posto un problema di raccordo tra emigranti ed immigrati.
Già di per sé l’Italia è un popolo di meticci in un intreccio tra neolitico ed
età avanzata. È stato ed è un popolo di immigrati e di emigranti e a sua volta
di immigrati di ritorno se pur con una caratterialità diversa rispetto agli
immigrati a priori. Le direttrici sono state e sono quelle dell’antico Egeo,
del Mediterraneo, dell’Adriatico o degli Adriatici e quindi dei Mediterranei e
degli Occidentali americani, Sud – americani.
Il
Mediterraneo ha fatto l’Europa così come modello geopolitica, e l’Europa a sua
volta si è estesa tra le due direttrici che sono quelle del Mediterraneo,
appunto, e quelle dell’Adriatico. Entrambe le direttrici sono inclusive di
popolazioni asiatiche e indiane tout court.
Già
tra il 1412 e il 1498 Ramon Pané, al seguito di Cristoforo Colombo, sottolineò
il significato immigratorio nelle antiche Indie. Colombo inventò un “nuovo”
Occidente ed è con lui che l’Europa diventa popolo aperto ai confini moderni.
Proprio l’Africa mediterranea e il Sud Africa secondo una versione etnica
costituivano “una terra di sentieri abbandonati, di popoli scomparsi, di città
scomparse, di tesori abbandonati, di aerei abbandonati” (Alan Landsburg).
Gli
immigranti sono, in fondo, dei popoli in fuga. E ciò che lasciano viene ad
essere abbandonato creando nella loro stessa coscienza la metafora
dell’abbandono che non potrà mai essere colmato da ciò che trovano, da ciò che
incontrano, da ciò che ricevono.
Il
rapporto antropologicamente fondamentale è quello che si stabilisce tra eredità
e migranti. Questo rapporto crea un nuovo legame di civilizzazione che passa
inevitabilmente attraverso il fattore E. Sono, per molti aspetti, popoli in
fuga. Lasciano una struttura sociale confusionaria e contraddittoria e si
avviano verso viaggi della probabilità della speranza. Si insiste
sull’integrazione, oggi come nelle civiltà delle interazioni da Ulisse a San
Paolo, ma integrazione non significa valori condivisi.
Questo
sia per gli immigrati che per gli accoglienti. In questo caso specifico si
dovrebbe parlare di valori comprensibili e compresi. Tutto ciò può avvenire
soltanto se si offre la possibilità di vivere il linguaggio delle etnie in una
visione chiaramente demologia (usi, costumi, tradizioni, lingue nelle
comunanze, nelle comunità) che possa legarsi all’antropos (la centralità
dell’essere “umanismo” delle civiltà) di appartenenza e ad un etnos che resta
radicante.
Ma
l’altro snodo che va snodato è di non farli sentire popoli in fuga. L’aspetto
culturale è prioritario perché da questo aspetto valoriale si possono
individuare gli elementi strutturali che combinano il sociale e l’economico.
Gli
immigrati non devono più abitarsi nella fuga, ma devono essere educati al
rispetto delle loro tradizioni nelle tradizioni delle civiltà accoglienti.
Devono abitarsi nelle eredità e nella realtà. È una questione complessivamente
antropologica. Anzi dovremmo sempre più pensare ad una antropologia dell’anima
in una socializzazione del quotidiano.