Tra l’Armenia e l’Italia la cultura Occidentale si
intreccia con la tradizione Armena e trova nella letteratura un punto di
raccordo fondamentale. Si è portato l’Armenia nel sangue. Un
poeta cifra le parole sempre con il cuore. Le terre desolate o lontane. Le terre
deserte o richiamanti nostalgie. La sua Armenia ha le ferite mai cucite. Ferite
che diventano strozzature di cui la storia testimonia le rughe. E in questa sua
Armenia cristiana che è stata devastata dai Turchi e dai comunisti ci sono anche
i segni di una cultura che rimanda alla civiltà italiana.
Un poeta, dunque. Hrand Nazariantz. Nato a Costantinopoli
l’8 gennaio del 1866 e morto il 25 gennaio del 1962 a Conversano (Bari). Giunge
a Bari grazie alla cantante e ballerina Lena, ovvero, Maddalena De Cosmis di
Casamassima, diventata sua sposa nel Consolato italiano di Costantinopoli nel
1913. Dopo il matrimonio arriva, come esule, a Bari. Comunque il suo interesse
per la cultura letteraria italiana era nato in Armenia.
Studioso di Futurismo e di quella letteratura italiana che porta i nomi
di Marinetti, Govoni, Lucini, Verga, Pirandello.
Traduce in lingua armena Libero Altomare, Enrico Cardile,
Torquato Tasso. Significativo resta il suo rapporto con Filippo Tommaso
Martinetti. Con Marinetti intrattiene un rapporto epistolare a cominciare dal
1911 e la sua amicizia con Marinetti lo porta a scrivere un importante saggio
dal titolo: “F.T. Marinetti e il futurismo”. Un saggio che resta un punto
centrale nella storia critica del Futurismo e da Bari Nazariantz costituisce un
punto di grande rilevanza in una lettura innovativa dei rapporti letterari tra
l’Oriente e l’Occidente.
Le radici di Marinetti, la sua nascita ad Alessandria
d’Egitto, sono dati di iniziale riflessione nel poeta armeno tanto che lo
portano a studiare i legami mediterranei tra la letteratura armena e quella
italiana in uno scavo che toccherà autori che segneranno il Novecento europeo
come Ungaretti (nato anch’egli ad Alessandria d’Egitto), Ada Negri, Lionello
Fiumi. Poeti con i quali intaglia una relazione metafisica tra il suo scrivere e
la parola vissuta di un esistenzialismo tagliato tra le corde di una
testimonianza linguisticamente dentro l’Ermetismo.
Ma il “suo” Futurismo ha radici nella
cultura certamente occidentale ma si filtra con l’esperienza di autori e di
testi che si sono spesso confrontati con il Mediterraneo. Lo stesso suo saggio
su Marinetti ha delle coordinate che rimandano ad una filosofia che trae la
sua spirale dalla vita vissuta come avanguardia, ovvero come
costante messa in discussione di quella tradizione che resta nell’espressione
problematica ma si decifra nei linguaggi.
D’altronde la serata Futurista al Teatro Piccinni di Bari
del 26 settembre del 1922 porta sulla scena la parola come azione partendo da
una con testualità che è quella del “riflesso” dentro lo specchio parlante dei
linguaggi. Ma Nazariantz sembra dividere le vie della letteratura proprio sul
pianto strutturale o contestuale. Da una parte la nostalgia che diviene “dono
espressivo” dall’altro il peso della parola che vive di
rivoluzioni nella (e della) lingua.
Il suo intervento critico è dentro la letteratura e il
più delle volte diventa un manifesto di poesia. La sua raccolta di versi del
1952 “Il ritorno dei poeti” va verso questo indirizzo che si apre al superamento
di una splendida intuizione che si legge in due titoli che mostrano tutta la
loro eleganza: “Paradiso delle Ombre” e “Aurora anima di
bellezza”.
Certo, la sua Armenia è un cammino nella diaspora, nella
nostalgia e nel sangue. Ma la sua poesia che vive di questi incroci trova nella
meditazione dei “crocifissi”, ovvero nell’aurora della cristianità, la metafora
più marcata di un intero viaggio umano e letterario. Ma l’Oriente resta il suo
viaggio interiore. Vi rimane e permane anche quando la sua rivista “Graal” pone
a confronto il senso cosmico e la tragedia come costante quotidianità del
vivere. È, comunque, il paradiso metaforizzato dei fiori e del deserto che tocca
i labirinti del suo esistere dentro la parola e dentro la poesia che è
linguaggio dell’anima.
La sua Armenia è diaspora ma anche favola e leggenda. È
il canto dell’arte trascinato nel dolore e nell’esilio. L’esilio non si
consumerà e non si ritornerà dall’esilio. Chi l’esilio lo ha vissuto resterà
sempre un viandante disperso e ritrovato e il poeta Nazariantz vive l’esilio
come la sua vera “abitazione”. Il suo canto armeno è il canto di una Armenia
solcata tra le strade dell’Occidente cristiano che non può fare a meno di
confrontarsi con una storia ferita e con la nostalgia scavata nell’anima e nel
pensiero.
L’esilio di Nazariantz ha il taglio: “Tu sapessi,
fratello, come è triste/l’essere al mondo,/soli vivere e senza focolare,/non
sapere ove poggiar la testa/e volgere la propria tristezza/verso I silenzi di
Dio, camminare/stancamente senza posa, ovunque estranei…”. Il sentirsi estranei
o stranieri è un sentimento che nella diaspora del viandante
Nazariantz è una dimensione ontologica in cui il concetto di
esilio è metafisica dell’anima in un sapere che costantemente si ripete:
“…ovunque esiliati,/sapendo vana ogni ribellione/e vana ogni preghiera…”.
Versi che vivono nel sacrificio della Croce. Nazariantz
ha nella sua segnatura cristiana il rapporto dialogico tra la “terra e le
“stele” in una sospensione che è religiosità verso l’aurora. Nella sua diaspora
il poeta trova l’aurora superando il supplizio del buio. Così l’Oriente e
l’Occidente si ritrovano nella loro archeologia della conoscenza, in quel sapere
dell’anima che vive la libertà e il sogno. Ma la poesia è religione.
Nel pensare di Nazariantz sono incancellabili queste
chiose: “Chi crea per l’effimero soggiace all’effimero. Il vero Poeta si
distingue perché la sua vita è il migliore dei suoi poemi”. Alla ricerca di un
ulissismo mai vissuto e mai volutamente cercato, senza il lascito di profezie
altre, Nazariantz, pur nella sua diaspora e nel suo abitare l’esilio
(zambraniano), non smette di viversi dentro la luce della spera e dell’attesa e
con le rughe di una ironia che solcano i suoi passi.
La sua poesia è un misterioso incanto che si incastra
nella storia di un uomo che ha vissuto l’Occidente negli scavi di un Oriente che
è rimasta sempre il suo paese e la sua appartenenza. Ha portato con sé i fiori
del deserto, la libertà della tradizione, la rivoluzione dell’arte come
nostalgia e come gioco consapevole che l’arte vive sempre nel silenzio, nella
solitudine e nella pazienza dell’anima grande che fa i poeti e gli uomini unici.
Un poeta dell’anima tra i silenzi custoditi e le voci
raccolte. Un poeta metafisico che ha interpretato il futurismo con le alchimie
della memoria. Ma è tutta l’anima Armena che vive nel linguaggio di Nazariantz:
lo strazio, la diaspora la religiosità, l’incontro. Un viaggio in una identità
mai perduta.
* Responsabile Progetto “Minoranze etnolinguistiche” del
Mibact