D’Annunzio in Francia non dimenticando Eleonora
Marcel Proust lo definì un grande scrittore
di Pierfranco Bruni
Gabriele
D’Annunzio ebbe anche un modo francese, nel suo sublime, di vivere nella
letteratura la vita. Non si tratta soltanto di una questione biografica. Non si
tratta della sua permanenza in Francia per cinque anni. Non si tratta dei suoi
rapporti con il mondo culturale, con le donne, con i luoghi. C’è sempre
qualcosa di più in D’Annunzio. Ed è sempre un intrecciare la vita all’estetica.
Tradotto
con interesse in Francia, egli stesso scrive in francese e compone il Martirio
di San Sebastiano, musicato da Claude Debussy, in lingua d’oìl. Uno dei
romanzi che ha fatto tanto discutere la cultura francese degli inizi del ‘900 è
stato il romanzo Il fuoco. Romanzo, quasi delle conclusioni esistenziali
e letterarie di D’Annunzio, che è stato tradotto, con non poche difficoltà e
discussioni, da Georges Hérelle, il quale aveva già tradotto altre sue opere
come L’Intrus, L’Episcopo et Cie, Le triomphe de la mort, L’enfant de
volupté, Les viere aux roches.
Ma
intorno alla traduzione de Il fuoco che si apre una significativa
discussione sul legame tra testo originale e traduzione. Il fuoco è un
romanzo che presenta un articolato linguaggio nella sua forma anche sintattica,
in cui la liricità e il vocabolario, in alcune parti, di termini dialettali
costituiscono per il traduttore una interpretazione che ha bisogno di una
chiave di lettura che fa i conti con la visione estetica della parola
dannunziana.
Il
linguaggio trasformato nel sublime e nell’estasi di segno prettamente
dannunziano ben si addice ad un confronto con la letteratura francese che
accoglie benevolmente la presenza di una grande scrittore come D’Annunzio,
tanto da far scrivere a Marcel Proust in una lettera indirizzata a Fernand
Gregh, datata 3 dicembre 1901, che D’Annunzio è un “grande scrittore” e aveva
molto apprezzato le traduzioni.
È
Il fuoco che fa discutere. Sostanzialmente si tratta del suo penultimo
romanzo, che prima di essere tradotto in volume, vede la pubblicazione, a
puntate, sulle pagine della “Revue de Paris” dal 1 maggio al 15 luglio del
1900. in Italia, infatti, aveva visto la luce proprio nel 1900.
Perché
Il fuoco si presta ad una discussione proprio sul piano della traduzione
intavolando una vivace discussione con il suo traduttore Georges Hérelle (1848
– 1935)? Lo si è già accennato. Ma occorre ribadire che questo romanzo è il
romanzo più vissuto da D’Annunzio, nel quale si racconta la straziante storia
d’amore con Eleonora Duse. La Duse era ben conosciuta in Francia. Poi perché
D’Annunzio sosteneva la intraducibilità dei termini dialettali e la completa
fedeltà della trasposizione lirica del romanzo e su questo insisteva sul fatto
che bisognava rispettare, senza alcuna libera interpretazione linguistica, il
senso lirico del linguaggio attraverso una vera e propria “filosofia del
tradurre”.
Un
senso lirico che doveva mantenere la piacevolezza della scrittura che doveva
unificarsi con la piacevolezza della lettura, oltre al fatto di restare fedeli
ai nome dei personaggi. Ovvero i personaggi del romanzo non dovevano
assolutamente mutare i loro nomi nella traduzione. Una richiesta di completa
fedeltà al testo. Chiedeva il rispetto della impostazione lirica ma anche il
rispetto della lingua italiana.
Con
la Francia, comunque, giuntovi, come ebbe a dire, in “volontario esilio”, ma in
realtà perseguitato e inseguito dai creditori con i quali aveva accumulato
incendi debiti, intrattenne ottimi rapporti.
Soggiorna
tra Parigi e Arcachon e tra l’altro scrive e pubblica i versi inclusi in Merope
dedicati alla celebrazione della guerra Italo – turca, oltre alla tragedia in
versi la Parisina, composta nel 1912 e musicata da Pietro Mascagni.
D’Annunzio
ha sempre considerato la Francia non soltanto il Paese dello stile e dei
profumi nell’eleganza delle donne, ma quando l’Italia fascista strinse il patto
con la Germania, D’Annunzio, nel condannare questa sciagurata alleanza, aveva
consigliato Mussolini di stringere un accordo con la civiltà latina dei
francese, considerato l’unica Nazione con la quale l’Italia poteva confrontarsi
per storia e cultura.
Rimase
in Francia sino al 1915. Vi era giunto nel marzo del 1910.