Ferragosto. Ha un bichini a filo tra i ritagli del
suo inguine e un piccolissimo copriseno dove i capezzoli sono due punte di
spillo con diamanti e non ho più malinconie
di Pierfranco Bruni
15
agosto. So che le spiagge sono affollate. So che le onde sbattono contro gli
scogli, a volte tagliandoli e a volte scavandoli fino a creare paesaggi con
abitazioni preistoriche. Conosco le case di roccia che il mare ha levigato. Ci
sono stato tante volte nei mattini presti con una donna che mi raccontava
destini e mi offriva le rose azzurre della sera.
Non
mi lascia una canzone dei mie anni antichi: “Amore tu mi hai telefonato
chiedendomi se sono ancora vivo ed io ho scherzato ho riso… Vediamoci sono
triste ho voglia di scherzare un po’ con te…”. Era il 1971. Andrea Giordana.
Ora.
Siamo ad un ferragosto che ha le pieghe della malinconia. Se dovessi
raccontarmi le ore delle attese lunghe nei giorni del nostro amore farei tardi
persino con me stesso. Il tempo si va esaurendo ad ogni battito di cuore e ad
ogni lacerazione d’anima.
Ho
vissuto isole e solitudini ed ho attraversato mari e gomitoli di cenere
impastate d’odio che hanno colpito la mia schiena. Ma voglio dimenticare
abbastanza in questo metà di agosto che ha il sole nel tramonto e l’aurora è
sparsa di ombre. Non sono stanco. Sono distante e la cosa è molto diversa.
I
monti della Calabria hanno i colori dei verdi incastonati nelle pietre dei
mercanti arabi che vendono sorrisi e preghiere al loro Dio. Nei giorni di
agosto vado spesso tra le vie delle mie terre. Anche quest’anno ho abitato i
luoghi che sono stati i miei luoghi. Ci sono ferite che possono essere
dimenticate, ma io non dimentico, e possono essere vissute con il senso del
perdono, ma io non ho la religione del perdono.
Il
mio unico senso di questi anni passati e del presente che non smetto di vivere
è l’indifferenza che ha voci di silenzio e sensazioni di disamore. Ma non
dovrei scrivere di questo. Siamo a ferragosto e l’agosto è il mese in cui tutto
si rimanda. Rimandiamo anche la morte con il riso beffardo di chi gioca a carte
coperte.
Ritornando
in Calabria non ho più ritrovato il tempo di prima. Aveva ragione Corrado
Alvaro. Non ho ritrovato quel tempo di prima perché sono io a non essere più
quello di prima. La mia casa è invecchiata. Ci sono tentacoli di nostalgie e
grandi solitudini. Mio padre non c’è più ma tutto di lui è fermo tra le sue
carte, la sua raccolta di segni e di passaggi d’epoche. La morte non è un
calvario. La morte è semplicemente la fine. Il giardino tace nella sua assenza.
Una volta mi accoglieva con il sorriso esplosivo del giallo, del rosso, del
viola che intrecciavano piante di rose ad agosto e lunghe aiuole di
peperoncini.
È
passato quel tempo. Il tempo. Mia madre è invecchiata e vive di memorie, sola,
nell’accettazione di voler raggiungere mio padre. Una vita insieme nel gioco
delle parti e nel costo infaticabile dell’armonia e dell’allegria. Ho osservato
mia madre, in questi miei due giorni di agosto in un paese che mi accoglie e
che io non vivo più, ed ha gli occhi segnati da un dolore che non è
rassegnazione. Consuma i giorni consumandosi tra le pieghe delle tristezze ed è
come se mi chiedesse una giustificazione di tutta la sua solitudine. Io non
rispondo. I miei occhi incontrano i suoi ma sono occhi che non hanno più luce.
Ed io non so più consegnarmi al viaggio delle dimenticanze e neppure ai
sentieri del perdono. Sono nel silenzio.
In
una leggenda indiana Eschimese si recita: “Lasciate che la persona alla ricerca
di una visione si appenda per la gola. Quando il suo viso diviene violaceo
fatelo scendere e chiedetegli di descrivere ciò che ha visto”.
Nel
mio giardino. Nel giardino di mio padre. Ho sfiorato i rami delle piccole palme
e non mi hanno parlato. Le tredici tartarughe è come se si fossero racchiuse
nell’attesa della morte. Anche in questo agosto ho tagliato gli odori delle
stanze e la polvere ricopre ogni mio libro, ogni mio racconto lasciato a metà,
ogni desiderio lacerato dall’oblio. Ma sono così distante e così vissuto che
ogni gesto ogni parola mi sembrano di averli già compiuti e già ascoltati.
Ma
perché queste rimembranze di buio in un giorno che ha la cristianità della luce
e il sole della festa? Lo sciamano mi ha raggiunto nella notte. Mi ha svegliato
e mi ha detto: “Non devi temere. I serpenti ti girano intorno ma tu hai il
coraggio dei combattenti. Sei un incantatore di misteri. Non affrontare i
serpenti è vile. E tu non sei mai stato vile. Anzi quello che sei lo sei perché
hai il coraggio dei guerrieri che hanno vinto guerre impossibili con la perseveranza
e la dignità. Tira fuori i serpenti da chi cammina con gli occhi bassi e
affrontali con il tuo sguardo di sempre. Basterà un tuo sguardo e la tua
energia di aquila per metterli in fuga. Vestiti di rosso e di giallo e non
scordarti che il dio del Sole è con te. Non dimenticare di svegliarti e di
dirti Namastè”.
Non
penso allo sciamano, non rifletto sulle sue parole. Le vivo come sempre ho
vissuto il cammino dello sciamano e conosco le vie che possono condurmi
altrove. La domanda resta dentro di me. Perché rimembrare le nuvole e le ombre
nel giorno di Ferragosto? Ci sono civiltà d’anime che involontariamente bussano
alla porta del cuore e le solitudine mi rendono libero. Solo la solitudine ci
renderà liberi?
L’ora
si è fatta tarda. Il mare è capriccioso ed ha onde alte. È come se comunicasse
la sua inquietudine. Mi incammino per ritrovare la donna dai riccioli biondi
che l’altra sera con il suo grande sorriso mi ha offerto passioni e amplessi.
La
cerco. È stesa al sole accanto al suo ombrellone azzurro. Capta la mia
presenza. Ha un forte senso della percezione. Si solleva e mi punta i fari dei
suoi occhi. Ha la bellezza dei respiri delle grandi attese. Io sorrido per il
suo sorriso. Ha un bichini a filo tra i ritagli del suo inguine e un piccolissimo
copriseno dove i capezzoli sono due punte di spillo con diamanti.
Ha
la bellezza greca delle donne che camminano lungo la Parigi della Senna e cantano “La vie en rose”e vivono il sogno di Marylin. Le prendo le mani,
forte forte in una stretta tra le mie e pronuncio un messaggio Navajo: “In
bellezza sarai la mia immagine/In bellezza sarai il mio canto/In bellezza sai
la mia medicina”.
Lei
senza una minima esitazione mi risponde con il “Canto di primavera” del popolo
Ojibwa: “I miei occhi sorvolano la prateria e nella primavera avvertono l’estate”.
Cosa
vale tutto ciò che ho scritto prima ora che ho incontrato riccioli biondi? Un
amore è un amore? Non è così. La bellezza dell’amore vale l’amore come
bellezza.
La Calabria, con lei, è
distante. La casa e il mio giardino sono solitudine. Mio padre è morto. Mia
madre si racconta le nostalgie. Io, sciamano tra le stelle, non smetterò di
leggere le tredici lune sulle tredici tartarughe. Poi non posso più misurare il
tempo perché ogni tempo si misura con le sue storie.
Mi
attende una prova difficile. Non dirò quale. Ma aver rincontrato la mia
riccioli biondi mi fa riconciliare con l’estate. Siamo noi a vivere la vita o è
la vita che ci vive? A chi devo questa risposta?
Riccioli
biondi mi pone un dito sulle labbra e ridendo mi dice: “Se tu dovessi morire mi
taglierei i capelli/ti amo moltissimo mi dipingerei di nero il viso”. E poi
aggiunge: “Ma dai, sai che ti voglio provocare e non permetterò a nessuno di
poterti allontanare da me. Tu che sei un sicuro esperto di queste uscite di
magia indiana sai di chi sono queste parole?” Io punto i suoi occhi: “ripeti
la frase”. Lei mi ripete con calma la frase già pronunciata. Nuovamente punto i
suoi occhi e dico: “Non saprei. Ne sei convinta?”. E lei: “Non so. Ma so che
vuoi giocare come sempre ed è così che mi piaci e a te non si addicono le
cravatte o gli abiti blu. Ma non farti stuzzicare ancora. Se sai dimmi
altrimenti ti sfiderò ancora”.
Questa
volta la zittisco: “E’ un canto dei Tlingit per i quali la morte segna la
dissoluzione del corpo come materia, ma l’uomo e la sua anima continuano a
vivere. Vuoi qualche altra aggiunta?”. Riccioli biondi mi salta addosso e
intrappola le sue belle e abbronzate gambe al mio bacino e mi bacia, mi bacia,
mi bacia con forza, tanto che ci troviamo improvvisamente sulla sabbia
precipitati e avvinghiati nella passione delle sue labbra che non si stoccano
dalle mie.
“È
così che ti voglio. Amami e straziami di baci e cantami, anzi ti canterò:
straziami ma di baci saziami… Fottetene di tutto. Anzi se hai proprio il
bisogno di fottere…”. Mi scompiglia i capelli già arruffolata lati dal vento e
mi dice: “Tuffati, vediamo chi arriva prima alla boa…”.
Ieri
ero in Calabria a rileggermi le parole di Corrado Alvaro. Oggi, ferragosto,
dopo i neri pensieri il sorriso di riccioli biondi è nel mio sorriso. Una amore
vale una vita? O una vita vale un amore?
È
ferragosto. Non come gli altri anni. Ma il sole è un picco di riflessi gialli e
arancioni che fanno un rosso indiano. Ho braccialetti colorati ai polsi e una
collana buddista al collo.
Poi.
Si vedrà. Riccioli biondi ha un anello con ametista alla mano sinistra. Mi
dice: “Sai perché porto questa ametista sul dito lungo della mano sinistra?”.
“Non saprei”, rispondo. “Ah, ti ho colto in fallo. Mio mercante di pietre
preziose. Finalmente sei mortale anche tu”, con il riso dell’allegria mi regala
un’altra onda di bellezza.