Ci aspettano stagioni difficili.
La “caduta” del papa ha segnato
inevitabilmente una rottura tra il clero (nelle sue varie forme e nelle sue
gerarchie) e il popolo parlante la cristocentricità. È la rottura tra Cristo e
la Chiesa ma è anche la testimonianza che la Chiesa può reggersi senza Cristo
con quella “teologia” dell’ambiguità cristiana (Fabbri insegna) e il Cristo
senza Chiesa è il Cristo del trionfo. Perché un papa viene chiamato santità?
Metaforicamente a questa “santità” possono essere concesse le dimissioni? È
tragico ed ironico quando l’ironia tocca una modernità che vive l’uragano.
Qui non c’è stata la dimissione
di un papa. C’è stata la messa in minoranza di un processo cristiano incarnato da
questo papa e la Chiesa della Domenica non è riuscita a spendere una sola
parola in fede del simbolo che porta la Croce e la Passione.
Cosa è accaduto? Già dal primo
giorno si è riflettuto sul possibile successore.
Ma la Chiesa in Cristo può fare
questo con un papa che pone una questione esistenziale, religiosa, morale,
etica. Il Cristo deve offrire fedeltà alla vita e alla continuità della vita.
Come può un religioso accettare l’omosessualità? San Paolo era molto rigido su
questo principio. Come può un religioso in Cristo affrontare il problema del fine
vita posto dal cardinale Martini? Come può la Cei dare indicazioni di voto,
poi forse rientrate, ma già espresse per una politica economica delle grandi
banche? Come può un cristiano esprimere un voto di consenso per una cultura
materialista e marxista oppure condividere processi politici che portano a
valori relativisti? Gli interrogativi, anche di natura semplice e banali, sono
tanti.
Ma qui occorre un ragionamento
sereno e serio proprio sulle dimissioni del papa.
La Chiesa ha una stratigrafia
“politica” e una sua rigida impalcatura che ci dice chiaramente quali sono i
modelli cattolici e cristiani per essere un credente. Questa cosa non è
accettabile e non lo è, signori religiosi, soprattutto alla luce dell’esilio di
Benedetto XVI. Nella sua statura culturale e di uomo dentro la Chiesa e
soprattutto di teologo nella rivalutazione - rivelante di Gesù (i suoi libri su
Gesù lo testimoniano come anche lo splendido viaggio dedicato a San Paolo di
alcuni anni fa) Benedetto XVI non è rimasto ancorato alla sua poltrona, al
trono Pietra – Pietro, ha compiuto, invece, il grande gesto. Dante lo avrebbe
posto all’Inferno. Ma Dante ha sempre vissuto nella superbia dell’ambiguità,
sopravvalutato letterariamente e poeticamente irrilevante in un revisionismo
serio.
Siamo convinti che questo gesto,
dopo mesi di riflessioni e maturazioni, non sia sorto dal fatto che le
gerarchie che lo avevano eletto papa avevano perso la loro compattezza. Qui ci
troviamo di fronte, diciamolo con chiarezza, davanti a un quadro religioso ma che
ha delle chiavi politiche.
Tutto ciò che è avvenuto dopo ha
poco di cristianità. Mi è sembrata una retorica di una liturgia politica. Il
Camerlengo con il bastone del potere poneva i sigilli agli appartamenti del
papa dimessosi con una lucidità e una chiarezza da far paura. Non si è
avvertito nel suo sguardo, nel suo agire, il minimo segno di commozione.
Un papa che si dimette o che per
non essere sfiduciato abbandona il trono dovrebbe far tremare (o avrebbe
dovuto) il popolo cristiano. E invece l’accettazione è stata esemplare.
Possiamo continuare a credere ad un Chiesa strutturata sulla logica del potere?
Io sono molto distante da queste
visioni. Sono cristocentrico fino in fondo, ma la Chiesa non rappresenta la
pietà, la misericordia, il pianto di Maria. Da cristiano in Cristo non mi
rappresenta e non mi offre alcuna affidabilità. È la retorica che si fa
ragione. È l’ambiguità nell’incastro del timore peccato – perdono –
assoluzione. Ma da chi verremo assolti? Da questa Chiesa? Certo, da questa
Chiesa che rappresenta il simbolo della fede in Cristo e nei Santi. Troppo
facile.
Dopo la caduta di Benedetto XVI
credo che ci sia bisogno di tanta umiltà da parte della Chiesa stessa anche
attraverso modelli teologici che vadano oltre le spiegazioni o le tradizioni.
La Tradizione è nel Cristo in Croce che grida “Dio mio perché mi hai
abbandonato”.
Benedetto XVI lo ha gridato e la
Chiesa ha risposto con la diplomazia di procedere, con i percorsi
amministrativi, di nominare subito un successore. La Chiesa pregante, in questo
momento, mi sembra una scrutatrice di una logica teologale e non di un mistero
alla ricerca della verità.
Sono molto distante dalla Chiesa
teologia. Ma condivido la grande affermazione della scelta in Cristo e non
nella verità. Perché la verità della struttura del potere della “petrino” non
fa altro che crocifiggere la verità in Cristo e far trionfare le verità degli
uomini che si portano dentro quelle ambiguità che possono essere risolte con il
perdono e la manifestazione del perdono in misericordia.
Cristo in Croce non è teologia.
Non ha teologia. È mistero vivente nell’amore che offre esempi. Forse anche per
questo vivo l’allontanamento di Benedetto XVI come un esilio. Ma soltanto in
esilio il viandante, nella vera contemplazione di una religione che non è
liturgia, offre parole d’amore attraverso la testimonianza.
Nella cultura sciamana si dice
che il guerriero della luce deve essere impeccabile. Budda ci offre il suo
Namasté. La Chiesa il perdono. Ma, con la “caduta” di Benedetto XVI, è una
Chiesa che deve chiedere perdono ai cristiani in Cristo, inchinarsi al Cristo e
spiegarci ancora i processi dell’inquisizione. Io mi inchino ai piedi
dell’Illuminato e pronuncio Namastè. La Chiesa deve avere il coraggio e
l’umiltà di farsi perdonare.