Dibattito sul
Ministero per i beni e le attività culturali.
Chiamiamolo
Ministero della Cultura e dell’Identità Italiana
di Pierfranco
Bruni
Si riapre il
dibattito sulla proposta di una nuova progettualità, di un nuovo “abito”, di nuove
competenze, di nuovo tutto che dovrebbe avere il Ministero per i Beni e le
Attività Culturali, già Ministero per i beni culturali e già ancora Ministero
per i beni culturali e ambientali.
Un Ministero che
si rinnova sostanzialmente o non sostanzialmente con il Codice dei beni
culturali del 2005. Prima di questa data, nonostante circolari, decreti,
strutture e sovrastrutture tra dirigenze varie e diparttimenti, aveva (e forse
ancora lo ha) un punto di riferimento certo: la legge del 1939, la n. 1089 per
i beni culturali, ovvero una Legge nata in Regime fascista. Ci fu, addirittura,
il tentativo di soppressione del Ministero o dell’accorpamento.
La storia la
conosciamo bene (la conosco bene anche per i diversi libri scritti sia in
termini istituzionali – organizzativi che culturali: “La risorsa beni
culturali” e poi “Beni culturali identità”, 2004, 2005, sia per le diverse
consulenze gratuite sul tema) sin dalla Commissione Franceschini e poi dal 1974
e ufficialmente dal 1975. Il problema si pone per una serie di questioni. Che
non abbia avuto un ruolo importante, nel corso di questi anni, non è vero.
Altrimenti chi avrebbe retto tutte le strutture periferiche del mondo dei beni
culturali: dagli scavi archeologici alle biblioteche, dagli archivi ai monumenti,
dai musei alla promozione della cultura italiana nei paesi esteri?
Deve essere
chiaro un dato: aver inserito i beni archeologici, i beni musicali, lo
spettacolo dal vivo, il cinema, il teatro, le antropologie, i premi per la
traduzione, il diritto d’autore in un unico taglio istituzionale è stato un
fatto interessante perché è la testimonianza di una idea complessiva di cultura
e aver messo insieme la valorizzazione, la tutela e le attività è stato un
inizio in cui i processi vitali di un territorio si sono aperti, almeno
idealmente, ad un raccordo tra risorsa, vocazione ed economia. Il nervo
scoperto è che senza “finanze” non si fa cultura. Ed è una questione nevralgica
emersa nel dibattito di questi giorni che sta impegnando intellettuali ed esperti.
Ciò è l’antico Nodo di Gordio. Ma per chi fa cultura, secondo la mia diretta
esperienza, e per chi ha rivestito cariche istituzionali proprio in questo
campo anche come assessore alla cultura della Provincia di Taranto (per quattro
anni) e per chi è stato in molti paesi esteri a rappresentare la cultura
italiana e per chi ha ricoperto e ricopre presidenze in Comitati e Centri Studi
e per chi continua a lavorare sul campo istituzionale posso affermare con
consapevolezza che non tutto dipende e può dipendere dalla mancanza di risorse
economiche.
Visitiamoli
questi luoghi della cultura in tutta Italia, quelli che dipendono dal Ministero
e quelli che dipendono dagli Enti locali, per renderci conto che le idee fanno,
in molte occasioni, un salvadanaio per investimenti. Spesso ci “nascondiamo”
sotto il fatto che non abbiamo i soldini per portare avanti un progetto ma il
progetto ha bisogno di idee e, quindi, non solo di linee amministrative ma di
percorsi culturali che tirano nel gioco altre realtà. Allestire un museo
didatticamente leggibile nella modernità delle dialettiche internazionali non è
solo una questione di vuoti economici. Lavorare tra Enti e associazionismo e
volontariato non è questione soltanto di vuoti economici. Proporre una
articolazione di mostre tra archeologia, antropologia, architettura,
“emeroteche” non è questione di mancanza di economie. In quattro anni di
assessorato i progetti non mi sono piovuti da Marte me li sono inventati
guardandomi intorno.
Aprire un forte
dibattito sulle culture sommerse è coraggio, volontà e scelte. I compiti dei
beni culturali non sono solo quelli rigorosamente istituzionali ma
intellettuali. L’intellettuale deve raccordarsi con il mondo vasto dei beni
culturali e poi bisogna ampliare sempre più questo mondo dei beni culturali
alle culture che non sono solo quelle “caratterizzate” nelle norme del Codice.
Un Ministero aperto. Ovvero un Ministero della Cultura. Già, fa paura ancora
parlare di Ministero della Cultura. Ci porterebbe direttamente al Min.Cul.Pop.?
Invece, dell’attuale MiBAC?
Ci sono epoche
che separano realtà. Bisognerebbe rileggere la posizione di un intellettuale
che conosceva il fascismo della cultura e la cultura del fascismo, ovvero
Giuseppe Bottai, quello che votò per l’Ordine Grandi nella seduta che fece
cadere il fascismo.
In questi giorni
si è parlato della “nazionalità” delle cultura e del valorizzare la cultura
italiana attraverso le diverse arti. Per fare questo bisogna aprirsi ad idee
divergenti e articolate per giungere ad una convergenza di una cultura
dell’identità italiana. Senza una filosofia e una estetica della identità
italiana non si può parlare di un Ministero dei beni culturali che sia
altamente rappresentativo in tutto il mondo. È vero che le economie sono
povere. Ma anche le idee non sono ricche.
Un Ministero
della Cultura deve essere un Ministero delle Idee e per le idee e non tentare
di fare della cultura unicamente un progetto economico “provvidenziale”.
Capovolgo il discorso. Partiamo dalla cultura delle idee per proporre una
cultura che possa essere investimento. In questo discorso abbandoniamo una
volta per sempre le ideologie perché nonostante si continui a dire che sono
morte queste, le idee, sono ancora più vive che mai anche se si sono
trasformate in pensieri sull’economia.
I beni culturali
lasciamoli alla cultura e a chi fa cultura, con ciò non si intende di
rinchiuderli nel cerchio degli addetti ai lavori ma il discorso è molto più
alto e problematico in un coinvolgimento di visioni globali (e chi scrive ha
sempre lottato per lo sdoganamento dei beni cultuali come appannaggio degli
specialisti), e a chi vive la cultura con esperienze, eredità e una forte
testimonianza identitaria. Perché la cultura resta l’identità di una Nazione.
Chiamiamolo,
dunque, Ministero della Cultura dell’Identità Italiana.