I beni culturali sono strategie di sviluppo in una
politica
dei mercati culturali
di Pierfranco Bruni
Caro Dario…
Beni culturali e
strategie di sviluppo. È l’antico problema che si pone non solo dal 1974 – 1975
(quando il buon Giovanni Spadolini si inventò, proprio in un progetto di
strategia politica ed economica applicata alla cultura, il nuovo e ora vecchio
Ministero per i Beni Culturali e Ambientali allora, nato da una costola dalla
Pubblica Istruzione), ma immediatamente dopo (dalla Commissione d'indagine per
la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e
del paesaggio 1964 – 1967 sino alla proposta Ronchey che apriva al
“mercato” i servizi aggiuntivi ai beni culturali) si tentò di fare del
patrimonio culturale non una “residenza” della memoria, ma un bene radicato
alla tutela della memoria con obiettivi prettamente economici.
Sono passate
epoche. Ma i beni culturali sono ancora considerati, in una filosofia della
politica, ma anche in un “tecnicismo” dell’etica del bene, come realtà
scollegata ad un rapporto tra investimento e processi di economia avanzata.
Il bene cultura
non è più soltanto un bene della memoria.
Cominciamo a
considerarlo come un bene nel mercato delle culture. Ciò non significa che deve
essere portato nei mercatini di quartiere ed essere messo in vendita o essere
messo all’asta nei Palazzi. Deve essere considerato un bene che rispetta la
storia, ma deve essere strumento produttivo.
In una società
come la nostra se un museo, o una mostra o altre realtà legate al mondo dei
beni culturali o delle culture, sommerse o meno, non produce, (o non
producono), nella logica dei costi e benefici, è inutile tenerlo aperto. Una
struttura che offre al mercato, ovvero all’utenza, un prodotto se non ha un ritorno,
ovvero un ricavo, resta un prodotto non venduto e la struttura è deficitaria.
Mettiamocelo bene in testa che tale questione deve essere affrontata non più
con le stesse argomentazioni di quarant’anni fa. Tutto è mutato in queste
nostre società in transizione. Anche le culture devono essere consideratati dei
prodotti.
Parliamo di beni
materiali. Attenzione. Non solo e non tanto di beni immateriali. Un conto è
discutere di un bene immateriale: le lingue, le tradizioni, le forme
antropologiche, lo spettacolo dal vivo o altre similari caratteristiche, certo
anche un bene archeologico nella sua metafisica visione è immateriale ma non
può essere più così.
Un conto,
invece, è quando parliamo di un bene materiale sul quale si è investito in
finanze e finanziamenti. Se si allestisce una mostra e la mostra non porta dei
risultati economici sicuri, e dico anche forti, è giusto sottolineare che si è
commesso un errore.
Non abbiamo più
bisogno di una filosofia del bene culturale o di testimoniare un’identità o di
dimostrare un’eredità, anche attraverso nuovi reperti o nuove ricerche o nuove
scoperte, soprattutto in una Nazione come l’Italia che ha una sua civiltà di
etica e di estetica avanzata tra filosofia dei saperi e saperi innovativi sul
piano della scientificità. Ci conosciamo già con la nostra storica
consapevolezza.
Smettiamola con
il sostenere che siamo il Paese più bello al mondo per i suoi beni culturali.
Questi beni culturali sono ricchezza e saranno ricchezza se produrranno
ricchezza e se creeranno motivazioni e stimoli per processi economici legati
alla cultura.
Da anni seguo
con attenzione tali problemi. Li ho seguiti all’interno del mondo dei beni
culturali, li ho seguiti come protagonista tra le istituzioni rivestendo un
ruolo significativo nelle politiche culturali, li continuo a seguire sul piano
dialettico con le mie pubblicazioni specifiche nel settore e sono sempre più
convinto che dobbiamo smetterla di affermare che “bisogna conoscere il passato
per costruire il futuro”. Retorica stantia. Bisogna essere interventisti senza
risparmiarsi.
Il bene
culturale, assodato che è memoria e lasciamo pure il suo giusto posto alla
nostalgia romantica e decadente, bisogna avere il coraggio di “sdoganare”
(termine che uso da decenni) il concetto stesso di bene culturale e legarlo ad
una politica forte sul piano economico. Insomma bisogna consideralo come
elemento che possa entrare nei mercati della cultura.
L’idea
manageriale che abbiamo avuto fino a qualche tempo fa, e che si continua ad
avere, non basta. Partiamo dal presupposto rischioso che la cultura non è solo
economia. Il binomio comincia ad essere antico. Occorre rischiare e forte.
La cultura è
mercato. In che termini riusciamo a “vendere” la nostra cultura? Lo so che
troverò muri ben fortificati su questa mia posizione. Ma abbiamo il coraggio di
domandarci perché mai il bene culturale, in Italia, non è riuscito ad essere un
volano di sviluppo?
“Sdoganarlo”
anche dalla tutela (non abbandonarlo nella sua salvaguardia: non
fraintendiamoci) significa dare un orizzonte alla valorizzazione e alla
fruizione. Ovvero ad una fruizione valorizzante. Certo, occorre un’idea ben
definita di bene culturale che cozza, so bene, con il concetto tradizionale che
si ha, ma necessita una vera politica culturale, altrimenti saremo costretti a
chiudere strutture visitabili e depositi, territori alla luce del sole e musei
sotto le stelle.
Il bene
culturale è un bene economico, a prescindere dalla sua filosofia kantiana
appiccicata alla “ragion pura”, restiamo con Kant ma dentro la “ragion
pratica”. È ora di sgombrare il campo dalla “ragion pura” e di applicare non la
cultura sull’economia, ma, questa volta sì, l’economia sulla cultura. Più
strategia per fasi valorizzanti.
Gli addetti ai
lavori e gli esperti facciano il loro compito e continuano nel loro ruolo
fondamentale, essenziale, centrale che è stato ed è riferimento. Ma la politica
di investimento, di sviluppo, di regolarizzare l’etica dell’economia
all’estetica della cultura spetta ormai ad altri.
Quando una mostra
va male, o qualsiasi altro investimento sulla cultura e sui beni culturali,
ripeto, è investimento sconfitto. L’investimento sconfitto in questo settore
non è recuperabile e tanto meno reinvestibile, in quanto la cultura in sé, e il
bene culturale a – priori, non è riciclabile.
Bisogna fare in
modo che una mostra, o un museo in una realtà strutturale stabile, porti non
solo cultura, o organizzi cultura tout court, ma anche ricchezza,
strategia per il futuro, e nuovi modelli di finanza applicata alla cultura
stessa, attraverso processi progettuali in un’economia di mercati avanzati, i
quali puntano costantemente i riflettori su una applicazione di eventi
multidisciplinari che sappiano guardare alle politiche culturali
internazionali.