La
lingua e la collocazione della letteratura italiana. La scuola, agenzia
educativa e della conoscenza, ha un ruolo importante: ma basta con le antologie
a moduli. La lingua del parlante e dello scrivente oggi
di Pierfranco
Bruni
Bisognerà dare un ruolo
consistente alla lingua italiana soprattutto partendo dalla letteratura del
Novecento. È in essa che si sono moltiplicate le forme e le metodologie di
linguaggio che hanno guidato la storia della lingua nella modernità, attraversando
epoche ed opere già con San Francesco d’Assisi sino ad Angelo Poliziano, dal
Rinascimento alle ‘etichette’ illuministiche, che hanno cercato di formulare un
inciso rivoluzionario, ma che hanno consegnato la lingua stessa a Manzoni, e da
questo alle avanguardie di Pascoli e D’Annunzio, filtrando notevolmente il
Futurismo sino alla lingua post realista, alla quale la letteratura si è
agganciata e alla quale soprattutto il cinema si è aggrappata.
Dopo gli anni Sessanta si è
verificata una vere e propria modifica dei canoni e se si vuole di un
vocabolario. Dagli anni Sessanta ad oggi la lingua ha assunto precise chiavi di
lettura.
Quella codificata da una
norma dei vocabolari che hanno assorbito i cambiamenti anche sintattici e le
forme dialettali, oltre alla assunzione di comparazioni con la lingua inglese,
lingua che in molti termini ha preso il sopravvento, ma che è la lingua
italiana ufficiale.
Quella correntemente parlata
che, se pur in una forma corretta, ha innesti modulari rispetto a quella
scritta perché ha tagli favoriti da un linguaggio piuttosto discorsivo.
Quella cosiddetta “bastarda”
che è dovuta all’intreccio tra una scrittura giornalistica, televisiva,
telematica con ulteriori innesti che sono distanti dalla tradizione degli anni
Settanta.
C’è una quarta chiave di
lettura, non inclusa in un discorso ufficiale ma insiste, che è quella che
proviene dai testi delle canzoni.
I giovani usano come forme
direzionali della comunicazione l’incrocio delle due ultime chiavi per
confrontarsi, per dialogare, per definire un qualcosa e anche per definirsi.
Io addirittura aggiungerei
ancora una quinta chiave che è quella portata dalla presenza delle lingue degli
immigrati. Non sarebbe da sottovalutare considerato il fatto che sono detentori
di un loro linguaggio comunicante ma sono anche depositari di una loro lingua.
Non sempre il loro linguaggio comunicante, che potrebbe essere inteso come una
caratterizzante formula dialettale, si pensi agli albanesi o agli arabi
tunisini ed eritrei, è fedele alla lingua della loro Nazione. Anzi non lo è
quasi mai.
Tutti questi aspetti
riguardano l’importanza di dare un senso storico alla tutela della lingua
italiana. È naturale che non c’è più una lingua ufficiale tradizionale. La
tradizione nelle lingue è un fatto soltanto di consapevolezza di eredità, di
ricostruzione identitaria, di analisi dei processi sia letterari sia storici
stessi sia prettamente linguistici, ma si scende in una dimensione che è
antropologica.
Discutere di una lingua
corretta, oggi, significa ripristinare delle griglie che però, dobbiamo essere
consapevoli, non corrispondono alla realtà dei parlanti e degli scriventi.
Il parlante già di per sé,
pur mantenendo fede, alla consueta formula della grammatica e della sintassi,
usa sempre un vocabolario innovativo: innovativo, oggi, è anche il ripescaggio
di termini obsoleti, ovvero una parola usata da Tommaseo è innovativa ma anche
“arcaica”.
Lo scrivente, che dovrebbe
usare la lingua come estetica e correttezza dell’ufficialità e dell’esempio,
potrebbe essere lo scrittore. Dante e Manzoni sono esempi e testimonianze
che rispecchiano un tempo linguistico che non c’è più.
Noi parliamo, in questo
nostro tempo, il linguaggio di Andrea Cammilleri, che ha una interpretazione
prettamente etno-antropologica (ne parlo in senso non negativo: attenzione), il
linguaggio di Carlo Emilio Gadda con le varie sfaccettature, anche sul piano
della punteggiatura, (lo dico senza voler entrare nella rivoluzione linguistica
futurista che ha stravolto la lingua italiana: si può accettare o meno ma è
così), il linguaggio di Alberto Bevilacqua con delle sfaccettature anche
discutibili, ma che io accolgo con piacere, il linguaggio di una scrittura
puramente giornalistica trasportata come una nuova impostazione narrante in testi
che si fanno passare per narrativa, il linguaggio attento di Pasolini che
soltanto ora trova una sua interessante ottimizzazione.
Sono solo pochi esempi. Si
pensi a Luigi Meneghello o a Lucio Mastronardi o ad Alberto Moravia o alla
poesia di Giorgio Caproni. Noi viviamo in questa età e non tra Dante e
l’Illuminismo o tra il Romanticismo e Ada Negri.
Poi c’è la presenza degli
scrittori stranieri che, se pur tradotti, vengono ben recepiti sul piano della
sintassi ma soprattutto su quello della punteggiatura. Uno scrittore tra i
tanti: Garcia Màrquez. Il romanzo che gli ha dato la notorietà vira
qualsiasi forma di punteggiatura e quella standardizzazione di concetti ha
influito notevolmente nella lingua letteraria contemporanea.
Il fatto, invece, è un altro.
Il vocabolario ha un suo compito specifico che instrada verso una direzione ben
definita. Il linguaggio è ben altra cosa. Non si può imporre allo scrittore,
pensate al poeta contemporaneo, di impostarsi secondo i canoni del vocabolario
della lingua. Sarebbe un omicidio ma sarebbe anche un suicidio della stessa
lingua.
Bisognerebbe una buona volta
convincersi che la tradizione del dibattito delle lingue, sviluppatosi intorno
al De Vulgare e anche prima, non interessa e non tocca la comunicazione
della letteratura dei nostri giorni e tanto meno i “lucchetti” parlanti dei
nostri figli e delle piccole macchine parlanti che usiamo tutti per comunicare.
E se Dante non interessa, è storia e deve restare tale, non interessa neppure
il rapporto linguistico tra Manzoni sino a Carducci e a un certo Pascoli.
Dobbiamo convincerci che la
lingua italiana è completamente mutata rispetto agli anni Cinquanta del ‘900.
E’ mutata rispetto agli anni ’70 – ’90. Chi si ricorderà la lingua usata
nei volantini delle Brigate Rosse negli anni Settanta si renderà conto la
tipologia sintattica (non parlo delle minacce o dei codici terroristici ma
della grammatica o di altre scorrettezze morfologiche) che si innervava nella
nostra società. In che termini linguistici, mi sono spesso chiesto,
comunicavano le Brigate Rosse con l’attento e forbito Aldo Moro?
I cambiamenti delle società
cambiano anche la lingua. I cantautori degli anni Sessanta capirono questa
trasformazione e a loro si deve molto nell’aver mantenuto fede ad un codice sostanzialmente
in linea con la tradizione. La cinematografia è andata su un altro versante.
Bisogna
affrontare tale questione e credo che una scuola dentro i mutamenti delle
società dovrebbe avere un ruolo predominante. Ma molte volte dipende dai
docenti e soprattutto dai testi adottati. Un altro problema dolente.
Le antologie
scolastiche a moduli sono completamente non convincenti perché svianti. Sono
costruiti in modo che non possono essere compresi senza l’interpretazione attenta
del docente. Che senso hanno i percorsi modulari in una antologia letteraria?
Io non ho neppure intenzione di affrontarlo questo discorso perché son ostile a
questa interpretazione che permette soltanto una cosa: la distruzione dei
parametri letterari dello scrittore e l’incomprensione vera di uno scrittore o
di un poeta. È come se lo scrittore avesse scritto per essere inserito in un
modulo.
Ma dai, fa
ridere questo sistema ed è anche doloroso sia per lo scrittore che per la
storia della letteratura che adotta un’impalcatura di altro genere. Anche qui è
questione di lingua. Lo scrittore e il poeta non pensano mai di essere
strumento della critica, lo si vuole capire o no, e tanto meno pensano se un
domani verranno collocati in un determinato blocco.
Pensate agli
orrori commessi su Cesare Pavese. Ancora è un modulo neorealista, se lo si fa
entrare in un modulo, quando egli stesso ha scritto di non essere realista o
neo, e di non essere considerato tale.
Insomma, ci
troviamo di fronte ad una ristrutturazione sia della lingua e attraverso la
lingua ad una ristrutturazione della letteratura. Si avrà il coraggio, la
forza, la consapevolezza, la preparazione di mettere in discussione un apparato
del genere?
Noi
cercheremo di fare la nostra parte. Chiediamo alla scuola di fare la sua parte.
Ai docenti di non attraversare le antologie, ma di leggere gli scrittori e i
poeti direttamente e agli antologizzanti di rivedere le loro posizioni di ogni
genere o di ogni struttura.